Urtubia, l’anarchico: io, in rivolta perenne, punto il dito sulla Trojka

Domenica all’agriturismo ai Colonos di Villacaccia di Lestizza, nell’ambito della manifestazione “In File” sul tema “Libars di jessi eretics”, alle 17, Lucio Urtubia, “anarchico irriducibile”, dialogherà con Danilo De Marco e Federico Rossi. Gabriella Cecotti proietterà un video. Ecco il ritratto di Danilo De Marco.
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Seguendo la traiettoria di vita di Lucio Urtubia penso a Jakob Böhme, il Philosophus Teutonicus vissuto a cavallo tra il 1500 e il 1600. Ciabattino, filosofo sgrammaticato. Ma che filosofo!, scrive di lui Ernst Block.
Filosofo «al lume delle candele da osteria o sulla paglia dei fienili», Böhme riporta la riflessione sull’oppressione e le disgrazie piombate sulla testa della gente minuta dopo la guerra dei contadini dell’inizio del ’500 e di riflesso, tra Riforma e Controriforma, sulla pura gnosi dualistica di tenebra e luce.
Anche Urtubia riflette e lo fa memore dell’intuitivo istinto dell’arguzia contadina, poi da muratore; sempre e comunque da anarchico qual è, a vita. In questa sua autobiografia dal titolo “Mi utopia vivida” (La mia utopia vissuta) da poco pubblicata in Spagna e non ancora tradotta in italiano, Lucio riporta il suo acuto riflettere non solo sui fatti della sua storia personale, ma nientedimeno che sul concetto di Utopia.
«Mi chiedono e mi chiedo in forma umile, semplice e innocente cos’è l’utopia. E rispondo che è tutto quello che ho vissuto da quando ero bambino, tutto quanto è accaduto durante la mia vita… l’impensabile, l’inimmaginabile. L’impossibile fatto realtà. L’utopia è anche quella spinta che non si limita a immaginare un altro mondo, ma cerca di costruirlo facendo tutto il possibile di quanto è impossibile. Abbiamo un’infinità di strumenti e di risorse per farlo, una ricchezza inesauribile, che deve essere fonte di sviluppo e prosperità per tutti. Non sono contro la ricchezza, ma contro il modo scellerato con cui viene usata. L’utopia è espressione del talento, della passione, di progetti, autodisciplina, memoria culturale. Ma anche ora, io e te qui, a bere una birra sotto un cielo azzurro. I disequilibri del potere – utopia negativa e distruttrice «- creano solo ingiustizie e ineguaglianze sempre piú vertiginose, egoismo e infelicità. Come conseguenza ultima la violenza e le guerre».
E da incosciente e impulsivo seguace dello sgrammaticato Philosophus Teutonicus scrive della differenza tra utopia positiva - la luce - e quella negativa - le tenebre -. Si immerge cosí nella dottrina di Zoroastro relativa alla lotta tra Ahriman e Ormuzd, tra le tenebre e la luce. Insomma nel dualismo contraddittorio degli opposti. Nella fermentazione fra il Sí e il No.
E lo fa riportando tutto all’essenziale, utilizzando un vocabolario basico, sorretto da una franchezza diretta e disarmante, condizioni connaturate che l’hanno protetto anche quando la sua situazione sembrava disperata. Ne esce un percorso che trascina con sé un fragore di vita vissuta unico per un personaggio totalmente “asincronico”. «Ogni uomo - scriveva Böhme - è il suo proprio Dio e anche il suo proprio diavolo. Il tormento cui egli tende e cui si dedica lo spinge e lo conduce e di esso stesso egli diviene artefice».
E certo che Böhme, durante le sue peregrinazioni giovanili, lesse gli scritti di Paracelso e ne trasse linfa vitale per il suo pensiero. Per Lucio fu l’incontro a Parigi con Quico Sabaté, dopo la diserzione dal servizio militare e la sua fuga dalla Spagna franchista, a determinare tutto il suo futuro.
El Quico, combattente della celeberrima Columna Durruti durante la guerra civile e diventato, con l’ascesa al potere del golpista Franco, il nemico numero uno del regime spagnolo (Quico Sabaté morirà assassinato nel 1960).
Il muratore Urtubia a Parigi da semianalfabeta «quando arrivai a Parigi non sapevo neppure lavarmi le mani» iniziò a frequentare la storica sede libertaria al 24 della Rue Sainte Marthe, partecipando agli incontri con André Breton, Albert Camus, Lanza del Vasto, Daniel Guérin, George Brassens, Léo Ferré…
Se Böhme porta con sé e con la sua filosofia, la memoria di tradizioni delle comunità manichee ed eretiche: Bogomili, Catari, Albigesi, Anabattisti, comunità radicate nella cultura popolare nonostante l’attacco armato e mortale del Potere della Chiesa, Urtubia dal canto suo pare abbia inscritto nel Dna il senso della piú libertaria ed essenziale parola della tradizione anarchica: la rivolta.
Una rivolta la sua, contro la menzogna e l’ingiustizia. Contro il fanatismo della storia - il potere - denominatore comune del fallimento delle rivoluzioni. «La ribellione piú elementare - scriveva Camus ne “L’uomo in rivolta” –, garantisce l’essere, è il movimento stesso della vita e, il suo grido, il suo fare piú puro, fanno sí che sorga un nuovo essere».
Il gesto del rivoltoso prende quindi vita da una difesa della natura umana, procede senza esitare dall'esperienza individuale dandole un valore supremo, unico. Da questo punto di vista la rivolta è fabbricatrice di universi e l’uomo in rivolta un essere «ragionevolmente colpevole».
Questo nonostante le persecuzioni e le falsità espresse dall’autorità sociale e politica verso l’idea anarchica. Di conseguenza la possibilità concreta, e qui Lucio ne è il primo sostenitore, è una società senza gerarchie e altre forme di dominio. Una società consapevole di se stessa.
Storicamente è falso che l’organizzazione sociale necessiti sempre e comunque di un’autorità governativa. Le società gilaniche, esistite nell’est Europa e le isole del mar Egeo tra il 7000 e il 3500 avanti Cristo, erano forme di autogoverno non violente, evolute, raffinate e complesse per i loro tempi.
Società pacifiche dove uomini e donne godevano degli stessi diritti e doveri, che non hanno mai generato né caos né tanto meno violenze. Per Lucio queste sono le condizioni possibili per riportare alla luce quanto nell’uomo è sempre e comunque da difendere.
Per il muratore Lucio, specie di homo faber, o meglio detto ai nostri giorni, un anarchico lavorista “lavorare il giusto, ma farlo bene”, il fare è il centro dal quale tutto irradia. Il mestiere è il punto di partenza per il riscatto e la dignità. Allora ecco che Lucio si pone il quesito! Come poter aiutare gli altri. In tutti i modi. La solidarietà come principio. Anche a costo di farsi una cattiva reputazione.
«Una fortuna essere nato talmente povero - afferma Lucio - che non ho dovuto fare nessuno sforzo per perdere il rispetto verso tutte le istituzioni: per la proprietà, per la chiesa e per lo Stato». Il vecchio vizio umano, ora piuttosto manomesso, del pensiero come impegno di vita.
Cosí la solidarietà diventa per Lucio il bene assoluto. Gli eretici e i contadini del ’500 sono per lui gli esiliati politici, i reietti della Repubblica spagnola, i migranti, i movimenti di Liberazione dalle dittature nel mondo, i carcerati.
Ma se esiste il bene assoluto - l’utopia positiva - ecco che Lucio non fatica a identificare anche il male assoluto - l’utopia negativa, distruttrice delle condizioni materiali della solidarietà e, quindi, del bene comune e condiviso in quelle moderne “cattedrali immateriali” dove sono sequestrati i frutti e i sacrifici, le vene aperte di tutta l’umanità: le Finanziarie. E i loro “ordini terreni”: Banche o Trojke che siano, protette per di piú dalle leggi dello Stato.
Per Lucio Urtubia vivere nell’oggi significa che tutto è possibile e nulla è fatale. Che l’uomo è l’artefice della sua stessa esistenza. «Per questo - afferma - in certe situazioni è necessario perdere il rispetto per quello che non se lo merita, perché è l’unica forma di essere veramente rispettosi».
Lucio Urtubia, a suo modo un novello Ulrich, il personaggio dell’“Uomo senza qualità” di Musil, è cosí «l’uomo delle possibilità», colui che non smette di innervosirsi davanti al cosí detto senso della realtà delle “cose come sono”, mentre il mondo rovina su se stesso. Urtubia è una sorta di terreno vergine, sistema ecologico non contaminato, spontaneo. Impossibile ridurlo a monocultura da parte di qualsiasi ideologia dominante.
«Per vivere fuori dalla legge bisogna essere onesti» scriveva Bob Dylan nel 1966. Un dire che calza perfettamente per i nostri due personaggi, un ciabattino e un muratore, e il loro “fare”. Un fare di cui non troviamo facilmente tracce nella storia “colta” o nei corridoi del “Palazzo”, ma sicuramente ben visibili nelle pieghe della storia.
E le pieghe ci interessano piú di un tessuto già stirato a dovere da chi vuol farci credere che con i “se” non si fa la storia. Se vi capita di passare per Parigi non dimenticate di fare un giro nel quartiere popolare di Belleville e salendo, nel punto piú alto, incamminarvi nella serpeggiante rue Des Cascades.
Non potete sbagliare edificio perché le scritte che si leggono sulla facciata sono esplicite: “Le temps des cerises”, canzone scritta da Jean-Baptiste Clément e musicata da Antoine Renard e associata alla Comune di Parigi del 1871, e piú in basso Espace Louise Michel militante anarchica, femminista, una delle figure piú fulgide e passionali della Comune di Parigi.
E non abbiate timore di disturbare: non serve né suonare il campanello né bussare. La sua porta è sempre aperta. Vi racconterà com’è riuscito a piegare la piú grande banca del mondo, facendo attenzione, come gli ricorda spesso con ironia sua moglie Anne, a non diventare una leggenda.
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