Cinquant’anni fa moriva Lino Zanussi, anima di Pordenone

Il sior Lino, l’imprenditore illuminato che “creò” la Provincia. Fatale un incidente aereo nei cieli di Spagna: sei le vittime

PORDENONE. Le condizioni del tempo erano pessime. Alcune schiarite convinsero il pilota al decollo dalla pista di Barajas, vicino Madrid. Erano le 16.20 del 18 giugno 1968.

Lino Zanussi e il suo staff avevano fretta di raggiungere Bilbao per recuperare un po’ del ritardo causato dall’atterraggio fuori programma.

Pordenone, la lezione di Lino Zanussi: viaggio nella storia dell'azienda

Il velivolo entrò subito nel vortice di una bufera, non restava che cambiare leggermente rotta, puntando sull’aeroporto di Fuenterrabia, nei pressi di San Sebastian, dove i passeggeri avrebbero proseguito in auto.

Durante le delicate manovre, poco dopo le 17, si interruppero bruscamente le comunicazioni con la torre di controllo. Alcuni testimoni raccontarono di aver udito un rombo di un aereo in difficoltà e subito dopo il rumore secco di uno schianto.

Indicarono il piccolo monte Jaizquibel, che sovrasta le piste, il luogo del disastro. Morirono sul colpo i quattro dirigenti dell’azienda: Lino Zanussi, che all’epoca aveva 48 anni; il suo più stretto collaboratore, Alfio Di Vora (47 anni); l’ingegner Giovanni Battista Talotti (49 anni), direttore generale dell’Ibelsa, la fabbrica spagnola controllata dal colosso pordenonese; e Diego Hurtado de Mendoza, direttore commerciale.

L’esempio di Lino Zanussi da seguire oggi più che mai

Persero la vita anche il pilota Davide Albertazzi e il suo vice Sergio Millich, che erano alla guida di un Douglas-Piaggio 808 nuovo di zecca, praticamente utilizzato in quel viaggio come prova di affidabilità tecnica per convincere l’imprenditore all’acquisto.

Invece, si infransero contro una montagna i progetti di un industriale che era proiettato a sviluppare l’impero degli elettrodomestici, a quel tempo costituito da tredici grandi stabilimenti che davano lavoro a oltre tredicimila persone.

Studio e gavetta insieme

Lino Zanussi, fin da bambino, seguì le orme del padre Antonio, desideroso di apprendere ogni segreto di un mestiere che immaginava già parte del suo futuro.

Un po’ studiava e un po’ faceva il garzone, insieme al fratello Guido, nella piccola officina per la riparazione di stufe a legna, a Pordenone, in corso Garibaldi. Era già bene addestrato, quando la sede fu trasferita in via Montereale, dove Antonio Zanussi aveva a disposizione i terreni dei suoceri da destinare alla costruzione dello stabilimento di cucine.

Nell’immediato dopoguerra, alla morte improvvisa del padre, Lino fu catapultato ancora giovane alla guida dell’azienda, applicandovi passione e creatività. Voleva cogliere la modernità: leggeva trattati sull’organizzazione del lavoro nelle fabbriche considerate all’avanguardia mondiale, sperimentava l’applicazione di tecnologie, si ingegnava a inventare cose nuove.

Alcuni stretti collaboratori lo sentirono parlare di “linee di produzione”, poi per un breve periodo non lo videro in azienda: lui e il fratello Guido andarono negli Stati Uniti a impratichirsi di taylorismo e di fordismo. Poco dopo, alla Zanussi fu introdotto il meccanismo della catena di montaggio, che scardinò vecchi schemi, a cui seguirono i laboratori per arricchire i vari modelli prodotti con un design accattivante.

Fu un successo su tutti i fronti, tant’è che la fabbrica ancora nuova non bastava più. Così si estese tra le campagne di Porcia un immenso stabilimento, che diventò il motore di un gruppo industriale in grado di varcare i confini nazionali.

L’immagine degli elettrodomestici pordenonesi era proiettata in Europa. Zanussi fu infatti un precursore dei processi di internazionalizzazione delle imprese: il cervello restava in loco, mentre le braccia si trovavano dove girava il vento dei mercati.

Il suo pensiero creativo

La strategia “zanussiana” era quella di giocare d’anticipo. L’innovazione era un’ossessione per Lino Zanussi. In una lezione tenuta all’Università Popolare di Udine, qualche settimana prima della tragica morte, l’imprenditore dedicò alla sua parola preferita un passaggio che ancora oggi è ricordato come profetico: «La previsione dello sviluppo dell’impresa non è l’immaginazione del futuro, ma la volontà del futuro.

È questa volontà che mette nelle condizioni di rinnovarci continuamente: che non ci fa fuggire davanti ai problemi, ma ci porta a cercarli». In pratica, era il suo concetto di azienda “competitiva”, cioè sensibile all’innovazione permanente, in quanto anticipatrice dei movimenti del mercato, dei concorrenti e della società.

Puntava su una crescita legata strettamente alla qualità e alle dimensioni. Si racconta ancora l’aneddoto di un manager che interrogò Zanussi a bruciapelo: «Dai, sior Lino, cossa el vol far de tanti frigoriferi? Fermemose! Basta, cussì non gavemo altri pensieri par la testa».

La risposta fu secca, e in essa c’era la progettualità di un imprenditore che pensava in grande: «No’l pensa mai alla Fiat con i so sento mila operai? El vol tignir da cont i so fioi e i so nevodi? Finimola con le malinconie, andemo avanti».

Si trattava di prendere per le corna il toro scalpitante del benessere e del progresso, attraverso la diffusione dei consumi, magari con l’acquisto dei beni a rate, o firmando cambiali.

Lino Zanussi inseguì la modernità, che stava entrando nelle case degli italiani, avviando una serie completa di elettrodomestici: le cucine, che con i vari modelli erano in grado di soddisfare ogni necessità; i frigoriferi, che sostituirono le “giassere” (scomode e poco igieniche); le lavatrici, che contribuirono al processo di emancipazione femminile.

Tra storie e leggende, si ricorda che Zanussi fu conquistato dalla bravura di Paola Bolognani, chiamata la “leonessa di Pordenone”, la giovane biondona che non aveva rivali a “Lascia o raddoppia?”, la prima trasmissione a quiz della storia televisiva, condotta a fine Anni 50 da Mike Bongiorno. L’imprenditore sentiva l’odore di un altro business, quello dei televisori.

Incaricò i suoi collaboratori di presentargli alcune idee. Davanti alle prime bozze dei progetti, si alzò in piedi di scatto ed esclamò: «Abbiamo 10 mila rivenditori, volete che non siano capaci di vendere una decina di pezzi a testa in un anno? Sono sicuro di sì, così sarà raggiunto il lotto minimo indispensabile al lancio della produzione rispettando gli equilibri di bilancio».

Questa sicurezza dimostrava anche la potenza di commercializzazione della Zanussi, attraverso una solida rete distributiva: dalla fabbrica al consumatore.

Una rete di relazioni umane

Lino Zanussi era un industriale di carattere, ma non un uomo solo al comando. Seppe infatti circondarsi di collaboratori di alto profilo, che pescava in giro per l’Italia: nei gruppi aziendali di maggior rilievo, nelle banche nazionali più blasonate, nelle migliori università.

I problemi complessi dovevano essere risolti da un’équipe affiatata, in cui lui aveva ovviamente l’ultima parola. I suoi lavoratori si sentivano protagonisti di un grande progetto, dove tutti assieme avrebbero potuto toccare il cielo con un dito.

Favorì anche lo spirito imprenditoriale di alcuni dipendenti, incoraggiandoli e sostenendoli a mettersi in proprio, tanto che la Zanussi diventò l’incubatore di altre aziende innovative. Non a caso, in quegli anni si diffuse tutt’attorno una galassia di medie e piccole imprese.

Non amava invece i politici, non che non avesse a cuore i fatti più rilevanti per la comunità, ma riteneva che ognuno dovesse fare il proprio mestiere, senza invasioni fastidiose di ruoli. Mantenne lo stesso distacco anche dai salotti più influenti della grande industria e della finanza, tant’è che per questo motivo fu sempre considerato un imprenditore periferico.

Lui non si curava delle stroncature, spesso ne pagava il prezzo. Preferiva essere artefice di un’espressione concreta del capitalismo dal volto umano con l’intreccio di competenze, tecniche e umanità. Nella fabbrica durò anche dopo la sua morte un clima di “pax zanussiana”, intesa come modello di relazioni industriali che anche quando toccavano livelli aspri di conflittualità tra le parti rispettavano i progetti di crescita.

Far crescere una città matura

Era un imprenditore rigoroso: severo con gli altri, ma prima di tutto con se stesso. Aveva una visione di orizzonti lunghi che oltrepassavano i cancelli della fabbrica.

Creò tanta ricchezza e la usò come strumento fondamentale per elevare il livello di competitività, attraverso il suo reimpiego nell’azienda per la produzione, l’innovazione e la formazione del capitale umano.

Quelli che lui chiamava “schei” erano indirizzati ad alimentare la tempesta di idee. Non solo, perché una parte non trascurabile di profitti, mediante una sorta di dividendo sociale, era destinata a sostegno di progetti utili alla crescita complessiva del territorio.

Una grande azienda aveva bisogno del sostegno di una città. Cosicché Pordenone da paesotto diventò capoluogo di provincia. Il principio di territorialità era però interpretato da Lino Zanussi con un approccio tutto suo, senz’altro lontano da alcune logiche spiccatamente paternalistiche, proprie dei padroni delle “company town”.

«Se andasse in crisi la mia azienda – spiegava ai più stretti collaboratori – non sarei in grado di farmi carico dei tremendi effetti negativi che ricadrebbero su tutti. È necessario che Pordenone si muova per la sua strada e cresca con le proprie forze».

Era la chiamata a una coerente responsabilità collettiva, ma non fece mai mancare il suo sostegno a strutture, associazioni e iniziative per lo sviluppo di una “città matura”. Per tutti era confidenzialmente “sior Lino”.

E il giorno dei funerali, i pordenonesi non mancarono di onorare il loro grande condottiero. Un fiume di gente lo accompagnò nell’ultimo viaggio.

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