Palù, ecco il “chewing gum” degli uomini del neolitico

Gli scavi hanno portato alla luce un impasto di resina di betulla di seimila anni fa. L’archeologo Roberto Micheli: «Aveva proprietà curative e un buon sapore»

POLCENIGO. Da quanto tempo la gente mastica chewing gum? Se intendiamo la gomma americana, fin dall’ultima guerra, quando i soldati statunitensi, liberando l’Italia, lo regalavano con cioccolata e sigarette. Ben diversa è la datazione se si considerano invece le resine presenti in natura. Lo scavo in corso sul sito, tutelato dall’Unesco, del Palù di Livenza, ieri ha restituito un chewing gum neolitico, carbonizzato, masticato, seimila anni fa.

Il sito, individuato ancora nella primavera del 2016 dall’archeologo Roberto Micheli della Soprintendenza regionale archeologica delle belle arti e del paesaggio, sta restituendo una gran quantità di reperti e testimonianze sull’esistenza di un villaggio palafitticolo del tardo neolitico dal 3600 al 4000 avanti Cristo, via via che lo scavo è sceso di vari strati, fino al fondo attuale.

Ieri, sostiene l’archeologo Roberto Micheli «sono stati rinvenuti alcuni centimetri carbonizzati di resina masticata. Un reperto particolarmente interessante per ciò che rivela sulla vita del villaggio palafitticolo del Palù. Anche nel 2016 avevamo individuato, dentro lo strato superiore dello scavo, dei resti, più piccoli, di resine masticate dagli abitanti, duecento anni prima, circa nel 3.800 avanti Cristo.»

Lo scavo attuale, che prosegue da più di un mese, terminerà dopo la metà di agosto. «Le resine e la pece di betulla – continua Micheli – avevano proprietà curative, disinfettanti e anche un buon sapore. Venivano inoltre utilizzate come adesivo per incollare oggetti o sigillare contenitori di varia natura. Lo scavo che stiamo effettuando nel Palù si rivela particolarmente interessante per ciò che ci restituisce – osserva Micheli – grazie all’umidità che lo caratterizza. La piccola area, 36 metri quadrati, dove effettuiamo le ricerche, va costantemente drenata dall’acqua. Con le punte in selce delle frecce, sono emersi, intatti, i pali carbonizzati della palafitta, i resti di cibo, le ossa di animali, domestici e selvatici, oggetti di uso domestico, ceramiche, nonché le resine masticate».

«In un terreno asciutto si sarebbero rinvenute solo selci e resti di vasi e contenitori in ceramica. La ricchezza del Palù – continua Roberto Micheli – è dovuta alla presenza dell’acqua che ha protetto e conservato per più di seimila anni ciò che oggi emerge».

Eseguito dagli archeologi della cooperativa Cora di Trento, coordinati da Nicola De Gasperi, con l’apporto costante degli appassionati di archeologia del Gr.a.po di Polcenigo, lo scavo restituisce ogni giorno nuove sorprese. Sono emersi i pali carbonizzati con le tavole della palafitta, assieme ai resti in ceramica di un forno domestico, a cocci di vasi e contenitori di vario tipo, e poi, in rapida successione, ecco altri oggetti, fra i quali una pintadera con un raffinato motivo per tatuare la pelle o abbellire tessuti, un mestolo in legno di circa 35 centimetri e una pera carbonizzata. Tutto ciò assieme a una molteplicità di punte di freccia in selce, resti di nocciole e di semi vari, conservati per migliaia di anni fra la torba ricca d’acqua. Proprio grazie allo scavo in atto la Soprintendenza regionale, oltre a catalogare e custodire i tenti reperti, con il ricercatore paleobotanico Mauro Rottoli sta realizzando uno studio sulla dieta articolata delle persone che nel Palù conducevano un’esistenza da agricoltori, pastori e cacciatori. Sullo scavo, gli archeologi della Soprintendenza produrranno una pubblicazione per studiosi e appassionati. 

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