L'ex assessore di Osoppo: «Il cielo si colorò di rosso e sentivamo urla e lamenti»

OSOPPO. «In via del Cet si sentivano solo urla e lamenti fino a quando lo scoppio di due bombole di gas zittì tutti. Vidi l’inferno dantesco, calò il silenzio assoluto». La sera del 6 maggio 1976 Osoppo era raso al suolo.
Tra le macerie c’erano 111 morti, 101 i residenti, e 250 feriti. Chi era rimasto intrappolato in quel groviglio di travi gridava per farsi sentire nella notte più buia del dopoguerra, ma chi sentiva quei lamenti era impotente. Anche gli attrezzi erano rimasti sotto le macerie e donne e uomini scavavano a mani nude.
Ezio Lenuzza, assessore comunale di allora, non può dimenticare il papà di una bambina che aveva estratto dalla casa crollata il corpo della figlia ormai privo di vita, l’aveva steso sul tavolo e guardava senza dire niente.
Di fronte alla spianata degli edifici distrutti nessuno parlava, ogni parola era inutile. Nel vuoto si sentivano solo le voci di chi, come Lenuzza, faceva la conta dei vivi e dei morti. Troppi mancavano all’appello.
Lino Tic, Franceschina, Gino e sua moglie, sua suocere e Biondi: quarant’anni dopo, Lenuzza assieme alla vicina di casa, Amabile Londero, e al musicista Umberto Trombetta, seduti attorno a un tavolo, provano a rifare quel conto e in un solo borgo elencano almeno una decina di morti.
Il ricordo di quella notte illuminata dal bagliore di fuoco verso il monte Chiampon, «provocato dai gas liberati dalla terra», è indelebile nella mente degli abitanti di Osoppo. Ma la nitidezza di quei ricordi spesso blocca le parole.
È il caso di Paolo Fabris, il figlio del farmacista di Osoppo, salvato molte ore dopo dal padre. L’immagine di quel bambino estratto vivo dalle macerie, esposta nel museo Tiere Motus di Venzone, è diventata il simbolo di chi a Osoppo, quella notte, ce l’aveva fatta.
«Paolo è rimasto sotto le macerie fino alle 16 del giorno dopo, quando l’hanno tirato fuori lo portavano in braccio».
Un’immagine, questa, che Amabile e gli amministratori di allora non riescono a cancellare.
Un simbolo di speranza, così titolava il giornale diocesano “La Vita Cattolica”, era diventata anche Simonetta Trombetta, aveva appena 7 anni e il terremoto interruppe per sempre la sua corsa in bicicletta. Il suo corpo venne recuperato tre giorni dopo la tragedia grazie al detector che segnalava i palpiti del cuore utilizzato dai soccorritori svizzeri.

Lo strumento avvertiva un segnale, ma quel segnale di speranza si spense quando nelle macerie della casa fu trovata «la bicicletta deformata e il corpicino della bambina senza vita - scriveva Ettore Tamos -, con un pugno stretto nell’ultimo saluto ai genitori che l’attendevano alla vita».
Non è stato facile per i bambini di Osoppo superare quei momenti. «Erano scossi, per diverso tempo non volevano restare soli» racconta Amabile pensando ai due nipoti di sei e otto anni, rimasti intrappolati nella cucina di casa assieme ai genitori.
«Li abbiamo trovati seduti sul divano ancora vivi solo perché il tavolo gli aveva fatto scudo» continua l’anziana signora soffermandosi su un dettaglio: «Sono usciti dal buco che avevamo fatto sopra la finestra».
L’indomani la gente passava e diceva “qui sono tutti morti” invece noi eravamo tutti nell’orto. Non solo Amabile e la sua famiglia avevano trascorso la notte all’aperto, tutti l'avevano fatto davanti ai fuochi accesi a rischiarare l’oscurità che non lasciava intravvedere ancora la tragedia.

A mezzanotte arrivarono i militari e alle 3 un faro iniziò a illuminare il centro di Osoppo, non c’era una casa in piedi, solo cumuli di macerie. «Si vedeva - continua Amabile - fino in fondo al paese».
Il detector di Charles Stahlin, la guida alpina di Zurigo, che a soli 35 anni salvò una trentina di persone, rilevò anche il battito del cuore di nonna Santina, 78 anni, ma lo fece quando ormai era troppo tardi perché l’anziana signora morì prima di essere estratta dalle macerie.
La conta delle persone
«Giravamo casa per casa, andavamo a vedere chi c’era e chi non c’era». L’ex assessore sapeva quante persone abitavano negli edifici distrutti e, una volta accertato che i suoi parenti erano al sicuro, iniziò a fare una veloce conta.
Si fece largo tra le macerie sfondando le porte rimaste, miracolosamente, al loro posto. Qualche ora più tardi, fu proprio lui e altri compaesani a indicare ai militari in quali punti dovevano agire. I soldati iniziarono a recuperare i corpi dei morti, a soccorrere i feriti e a trasportarli con mezzi di fortuna negli ospedali più vicini.
La situazione era drammatica, ma «la gente - aggiunge Lenuzza - accolse la tragedia con estrema dignità». Nella piazzetta dov’era stata trovata Simonetta - la bambina si era fermata a chiacchierare con alcune amiche e venne travolta dal crollo di una casa - il proprietario, scavando a mani nude, recuperò il corpo della figlia. Spostò le pietre qualche metri più in là ignaro che lì sotto c’era anche Simonetta.
«La trovarono avvolta nella bicicletta - racconta Trombetta -, fu una delle ultime vittime a essere recuperata». In via del Cet non c’era una casa in piedi ed è lì che Lenuzza, dopo lo scoppio delle bombole, vide scene paragonabili «all’Inferno dantesco».
Calò il silenzio all’improvviso, sentiva solo il rumore delle pietre che rotolavano tra le macerie. «In una casa sapevamo che c’era qualcuno dentro, abbiamo rotto il vetro di una porta e ci siamo calati in un cunicolo. Lì sotto trovammo una coppia, lui proteggeva la figlia piccola che aveva sotto la pancia. La signora mi chiedeva “chi sei, chi se? Non le risposi cercavo solo di tranquillizzarla. Si sono salvati tutti e tre. Un mese e mezzo dopo, mentre spostavamo le macerie, trovammo il passaporto».
Il caos era totale. Molte persone non rispondevano agli appelli, e chi si era salvato ipotizzava scenari possibili quasi a scongiurare la fine più tremenda. «Trovammo mio cognato 15 giorni dopo il 6 maggio - fa notare Amabile -, era ricoverato in ospedale ma nessuno lo sapeva».
Mancavano le cose più banali, le pale, i picconi, le tenaglie necessarie per liberare le persone intrappolate. «Era tutto sotto, non si trovava niente» insiste Lenuzza spostando l’attenzione sulla zona industriale con i capannoni scoperchiati.
«Faccio un apprezzamento agli operai, ai sindacati e ai datori di lavoro che hanno iniziato a produrre senza i tetti. Alla Pittini lavoravano a cielo aperto, guardando le stelle. Il papà di un morto andò a dare una mano in fabbrica al posto del figlio, tutti gli imprenditori misero a disposizione le roulotte che ricevettero in dono dai colleghi».
L’incidente con i tedeschi
«Guarda caso i primi ad arrivare furono quelli contro i quali avevamo combattuto. I tedeschi e gli austriaci. Quella collaborazione fu la prima prova di Europa» afferma con orgoglio Lenuzza senza dimenticare di evidenziare la mancanza di interpreti che mise in crisi «la Prefettura perché nessuno parlava tedesco».
E chi lo faceva rischiò di compromettere la collaborazione. È il caso della persona che casualmente si trovava all’ingresso del municipio quando la delegazione tedesca arrivò a Osoppo.
«In tedesco gli disse che non erano graditi. I tedeschi non se lo fecero ripetere e tornarono indietro» racconta l’ex assessore costretto poi a tentare la mediazione in presenza dei giornalisti che avevano pubblicato la cronaca dell’evento.
«La persona che aveva allontanato la delegazione non rappresentava l’Istituzione - sottolinea Lenuzza -, chiesi scusa ai tedeschi in un incontro pubblico».
Il suo pensiero va anche ai radioamatori, gli eroi dell’Ari (Associazione radioamatori italiani). Furono loro i primi a comunicare con il mondo dal Friuli terremotato.
Le visite di Stato
In quei giorni, a Osoppo, arrivarono i rappresentanti di Governo, il Capo dello Stato, Giovanni Leone, e il vice presidente degli Stati Uniti, Nelson Rockfeller.
«Piangeva - racconta Lenuzza - pioveva a dirotto e il vento sfilava i picchetti delle tente battuti a più di un metro di profondità al Rivellino». Amabile invece ricorda il suo faccia a faccia con il presidente della Repubblica, Leone.
«Mia nipote era arrivata da tre giorni dall’Argentina e non riuscivo a comunicare alla madre che la figlia era sana e salva. Presidente, gli dissi, vorrei far sapere a mia sorella che siamo tutti vivi. Leone, gentilmente mi strinse la mano, chiamò il suo collaboratore e disse: “Prenda l’indirizzo andiamo a Udine e mandiamo il telegramma”. I miei nipoti conservano ancora quel telegramma. Il presidente mantenne l’impegno e comunicò che i componenti della famiglia Venchiarutti Londero erano tutti vivi».
La fossa comune
I morti erano troppi e il cimitero non era in grado di contenerli tutti. I riconoscimenti delle salme furono fatti in piazza Dante, su ogni corpo veniva appiccicato un cartellino con scritto nome e cognome.
«Arrivò l’ordine di spostarli, non sapevamo dove metterli, fummo costretti a fare una fossa comune. Ma anche questa era insufficiente, a quel punto decidemmo di sistemarli in un’area esterna al cimitero».
Le immagini delle bare schierate fanno ancora rabbrividire. «Don Dino le sistemò tutte» assicura Lenuzza apprezzando la vicinanza del sacerdote alla sua gente.
Le tendopoli
La prima tendopoli sorse in un’area vicina alle scuole. Qualche giorno dopo venne organizzata la seconda al parco del Rivellino.
«Durò un mese e mezzo, la gente aveva già sistemato i fiori fuori dalle tende quando decidemmo di spostarla nella pista poco più avanti. In due giorni trasferimmo tutte le famiglie» continua l’ex assessore facendo notare che l’area del Rivellino era la più adatta per accogliere i prefabbricati.
La nuova tendopoli venne organizzata al meglio: «Andammo alla Rex e acquistammo fornelli a gas e frigoriferi, c’erano bagni e docce per tutti. Ogni tenda era autonoma, avevamo ricreato la comunità».
Osoppo bruciò le tappe anche con i prefabbricati: «Il 30 settembre fu il primo Comune a inaugurarli». Gli aiuti arrivarono da tutto il mondo. «Ci fu l’intervento diretto di Tito che fornì le Crivaia, le casette in legno prodotte in Bosnia Erzegovina. Erano bellissime».
Nell’autunno 1976, gli slavi continuavano a lavorare senza sosta, «anche quando pioveva», come pure i tedeschi ai quali erano state affidate le puntellazioni in centro storico.
Il forte
Crollata la chiesa restava solo la faglia larga mezzo metro. Era il segno evidente della forza della natura.
Come pure il grande masso che l’11 settembre si staccò dalla punta sud-est con un albero sopra.
L’anima del paese
«Il paese è stato ricostruito, ma ha mantenuto la sua anima. Siamo stati protagonisti del nostro destino». L’ex assessore ne è convinto e cita le centinaia, almeno 200, di assemblee pubbliche organizzate per analizzare le scelte urbanistiche.
«L’anima del paese - insiste - è rimasta la stessa perché la scelta urbanistica fu quella di mantenere le vecchie strade con i dovuti aggiustamenti funzionali. La gran parte delle persone tornò ad abitare nelle vie dove viveva prima del terremoto. Dove non c’era lo spazio fisico scattava l’esproprio. Se cedevo una proprietà per favorire la ricostruzione, potevo acquisire un terreno comunale. Questo era il riordino fondiario che, nel 1979, consentì alle prime famiglie di entrare nelle nuove case».
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