La tragedia del Vajont, il racconto dei vigili del fuoco: «Noi, quella notte, in mezzo al disastro della diga»

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Il lavoro dei vigili del fuoco è strano perché ti permette di conoscere il mondo da un punto di vista diverso da quello ordinario. Incontri la sofferenza, una condizione a cui non ci si abitua mai, e che per questo cerchiamo di eludere, dimenticandola.

Ma poi basta un piccolo stimolo per riattivare ricordi che sono lì pronti a riproporsi come fossero di pochi giorni prima. Per questo non è stato difficile coinvolgere Luigi Del Ben, Alfredo Gasparotto, Alfonso Zanon, Giovanni Martinuzzi e Adriano Bergamasco, tutti Capi Reparto dei Vigili del fuoco in pensione, in una chiacchierata per ricordare la loro l’esperienza a 56 anni di distanza da quella tragica notte in cui il monte Toc franò sull’invaso della diga del Vaiont, causando un evento devastante in cui morirono 1.480 persone.

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Luigi Del Ben. «Quella sera - ricorda Luigi Del Ben - eravamo intenti a guardare la televisione nella vecchia caserma di via Dante, a Pordenone, a quel tempo distaccamento del comando di Udine. Ricordo che intorno alle 23 le trasmissioni s’interruppero per dare la notizia che era crollata la diga del Vajont. A quei tempi il telefono non era molto diffuso, così m’incaricarono di andare ad avvisare i colleghi dell’accaduto. Lo feci con il Guzzino in dotazione, una motoretta da 65 cc a due tempi con cambio laterale, naturalmente rossa. Faceva freddo, lo ricordo bene, e dovetti anche mettere il cappotto. Colsi anche l’occasione di passare per casa per informare i miei famigliari dell’accaduto. Poi ci ritrovammo tutti in caserma ad attendere l’ordine di partenza, che arrivò dopo mezzanotte».

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I ricordi di Gigi sono dettagliati e chiari come fosse ieri. «Poco dopo essere scesi dal passo di Sant’Osvaldo ci siamo ritrovati nel buio con la strada piena di massi, che rendevano difficile la circolazione. Non ho vergogna ad ammettere che quella condizione ci spaventava, la notizia del disastro e le poche informazioni che avevamo erano difficili da gestire emotivamente e quel buio non aiutava proprio.

Rimanemmo fermi sul posto per circa tre ore e solo le prime luci dell’alba ci aiutarono a capire qualcosa di più, restituendo un paesaggio inimmaginabile: i prati circostanti non avevano più la cotica erbosa, le piante erano letteralmente sbucciate senza la corteccia e si percepiva chiaramente il segno di dov’era arrivata l’ondata d’acqua e con quale forza. Era inquietante, quell’area immensa aveva il colore biancastro del fango.

La luce ci permise di riprendere il percorso verso Erto e Casso. Ci assegnarono due persone ferite da portare all’ospedale di Maniago, così ci allontanammo per tornare in quei luoghi la sera. Mentre noi trasportavamo i feriti, i colleghi di Udine erano impiegati sul bacino d’acqua che si era formato a monte della diga, facendo spola tra le rive per trasportare materiale dalle case rimaste isolate, ma anche le vittime».

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Alfredo Gasparotto. «Appresi del fatto mentre stavo andando a prendere servizio a Udine in treno - racconta Alfredo Gasparotto -. Il crollo della diga, come si diceva, era sulla bocca di tutti ma le notizie erano ancora incerte. Solo una volta arrivato nella sede del comando di piazzale Cadorna che compresi l’eccezionalità dell’evento dal fermento che si respirava tra i colleghi con la necessità di predisporre automezzi ed attrezzature. Molti colleghi erano già partiti alla volta di Longarone e il giorno dopo toccò anche a me, con destinazione Erto e Casso.

Alloggiavamo in un asilo e la nostra area operativa era il lago che si era formato a monte della diga con il compito di traghettare cose e animali da una sponda all’altra tramite zattere messe a disposizione dall’esercito. A volte, purtroppo, capitava di trasportare anche persone morte e quello che più m’impressionò era che tutte le salme erano completamente nude: la violenza di acqua e fango le aveva completamente spogliate.
la paura di altre frane

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A tutto questo si univa anche un altro problema, ovvero il pericolo che si verificassero altre frane proprio dove noi stavamo lavorando. Per questo avevamo a disposizione delle radio in costante contatto con degli osservatori che ci avrebbero allertato subito di qualche movimento anomalo. Il lavoro durò per molti giorni e la nostra logistica si spostò più volte, dall’asilo a un’area all’aperto fuori dal centro abitato, proprio per paura della frana, quindi a Maniago, da cui partivamo ogni mattina alla volta della zona operativa».

Tra i tanti ricordi di quei giorni uno spezza il ritmo di quei tragici eventi: «Nei giorni che precedettero lo spostamento a Maniago i problemi per la logistica erano molti, ma la mattina continuavamo a lavarci con la brina dei campi riscaldata con le mani, avevamo poco più di vent’anni».

Alfonso Zanon. Alfonso Zanon se ne stava tranquillo a casa a gustare il suo turno di riposo. Intorno a mezzanotte qualcuno gli suona al campanello per richiamarlo in servizio. Ora sappiamo che quel qualcuno era Gigi. Anche lui si precipitò in caserma e il suo turno arrivò qualche giorno dopo con il compito di accompagnare dei tecnici dei vigili del fuoco provenienti dal Ministero per effettuare rilievi sul posto. «Il ricordo di quello scenario - spiega Alfonso - è strano: sembrava un paesaggio lunare, non riconoscevo più quei territori».

Giovanni Martinuzzi. Dall’altra parte della diga, a Longarone, operava Giovanni Martinuzzi assieme alle squadre di Udine. «Sapevamo solo che era crollata una diga, nient’altro, e partimmo da Udine alla volta di Longarone senza nemmeno sapere cosa ci aspettasse. Oggi è diverso e la pianificazione del soccorso supportata dalla tecnologia fornisce molti strumenti, allora invece partivamo senza molte informazioni, andavamo verso l’incognito. Dalla nostra avevamo l’età e soprattutto lo spirito dei vigili del fuoco. Io ero con l’ambulanza assieme a Vincenzo Forasacco.

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Dopo aver superato il passo di Sant'Osvaldo, nei pressi di Longarone, abbiamo trovato in mezzo alla strada un uomo solo, una sorta di apparizione, che sbracciando ci chiedeva di fermarci. Fu così che ci rendemmo conto che poco più avanti la strada non esisteva più e che noi eravamo circondati dal nulla, solo un’immensa distesa di sassi senza alcun riferimento. Quella visione ci colse impreparati, ma subito dopo prevalse lo spirito di noi soccorritori abituati ad affrontare le situazioni per risolverle».

Forasacco aggiunge al racconto un suo ricordo particolare: «Quella strada scomparsa era pericolosa, per questo tagliammo un albero con la motosega facendolo cadere sulla strada, era l’unica possibilità che avevamo per bloccare il traffico. Poi tirammo fuori degli spezzoni di scala italiano per scendere da quell’affossamento e proseguire». È difficile che un vigile del fuoco si perda d’animo e il suo ingegno è spesso risolutivo di certe situazioni, ora come allora.

«Alcune persone ci indicano dei luoghi dove c’erano mucchi di corpi...», e qui Giovanni Martinuzzi si ferma per rispetto. Poi un ricordo stimolato dal genero che lo accompagna nel colloquio: «Entrai in una casa e trovai tre corpi nudi su un letto matrimoniale, quasi l’istantanea di una vita. C’era ancora il bambino attaccato al seno della madre, una scena che nemmeno a distanza di tempo riesco a dimenticare».

Giuseppe Zucchet. «Avevo 24 anni ed ero vigile del fuoco discontinuo in servizio all’aeroporto di Treviso», esordisce Giuseppe Zucchet. «Quel giorno mi distolsero dal servizio aeroportuale per inviarmi a Longarone assieme ad altri colleghi. Non ricordo a che ora partimmo, ma il sole era già alto e in poco tempo arrivammo sul posto dove subito cominciammo a lavorare, visto che molte persone ci vennero incontro per chiederci aiuto. Sul posto eravamo tutti preoccupati e inquieti: girava voce di una nuova possibile frana, ma c’era molto da fare e in poco tempo la fatica ci distolse da quel pensiero.

Dopo questa missione mi trasferirono al comando di Udine e venni assegnato al distaccamento di Pordenone, dove mi capitò più volte di essere mandato a Erto e Casso per effettuare interventi di vario tipo, tra cui anche il recupero di quelle salme che a distanza di tempo da quella notte continuavano a riaffiorare».

Quanto ci ricorda Bepi propone un’altra dimensione di questo disastro, che spesso dimenticata. Gli interventi dei vigili del fuoco non finirono dopo qualche mese, ma continuarono per molto tempo, anzi per anni.

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