Vajont, quell'onda che distrusse duemila vite: una tragedia con pochi colpevoli e dalla "memoria corta"

"Il Vajont non può essere definito uno scandalo perché tecnicamente si trattò di una serie di scandali, piccoli e grandi, protrattisi anche dopo il disastro”. Con queste parole Guglielmo Cornaviera, storico presidente del comitato dei superstiti mancato nel 2007, era solito sintetizzare una delle pagine più oscure della storia italiana. Una ferita aperta che non ha ancora certezze sulle responsabilità, solo un lungo memoriale di vittime.
Una ferita che fa fatica a rimarginarsi, soprattutto quando una giovane tatuatrice prende in giro l'immane tragedia con una vignetta e non chiede nemmeno scusa. Per ricostruire cosa successe quel 9 ottobre del 1963, quando un'onda anomala dalla potenza due volte superiore alla bomba di Hiroshima travolse tutto e provocò la morte di 1910 persone, occorre fare un passo indietro al 1943.
La costruzione del Vajont, un falso in atto pubblico
Si perché già dalle origini la vicenda del Vajont nasce con un primo falso in atto pubblico. E’ il 1943 e a Roma, nel mezzo del caos dell’8 settembre, il Ministero dei lavori pubblici approva una relazione per lo sfruttamento del torrente. Se ne parla fin dal 1900 ma questo è il primo vero atto autorizzativo. Di fatto viene dichiarata la pubblica utilità dell’intervento in modo da superare qualsiasi successivo ricorso o opposizione.
Nessuno si accorge che il documento è nullo per mancanza del numero legale (su 36 funzionari della commissione, ne sono presenti 13). Passa la guerra e sembra che tutti si siano dimenticati di quel piano industriale convalidato in piena emergenza nazionale. Così però non è. L’11 maggio 1949, dopo vari incrementi dei volumi di acqua da contenere nel nascente lago, nei Comuni di Erto e Casso, Longarone e l’allora Castellavazzo viene depositato un progetto ufficiale. Scattano le rimostranze dei sindaci e dei residenti perché nei documenti si parla di espropri, spostamenti di abitazioni e persino dell’allagamento forzoso di varie borgate. Ma la Sade, la Società adriatica per l’energia di proprietà dell’ex ministro fascista Giuseppe Volpi di Misurata, è talmente forte che può addirittura avviare gli scavi prima di aver ricevuto un qualche nulla osta. Il Genio civile di Belluno è quindi costretto a sanare la situazione con provvedimenti posticci.
La posa della prima pietra
Il primo concio in calcestruzzo viene gettato il 22 aprile del 1958. Bisognerà attendere però il 22 marzo dell’anno dopo per una nuova serie di proteste ufficiali: in quell’occasione il vicino lago di Pontisei registra uno smottamento e la morte di un dipendente della società di gestione. Il 2 dicembre dello stesso anno crolla letteralmente lo sbarramento del Frejus e la gente di Erto e Casso decide di costituirsi in comitato davanti ad un notaio. Negli archivi resteranno centinaia di lettere e dispacci al Governo, Prefettura e magistratura, tutti caduti nel vuoto. Anzi. A Erto viene addirittura istituita una caserma dei carabinieri per tenere sotto controllo i residenti, ritenuti sediziosi.
A dar loro manforte c’è pure una giornalista bellunese de L’Unità, Tina Merlin, che avvia una serrata campagna di informazione sui rischi dell’impianto. Risultato: la Sade denuncia la reporter per il reato di diffusione di notizie atte a turbare l’ordine pubblico. Il Tribunale di Milano si vede però costretto ad assolvere la Merlin alla fine del novembre del 1960: quello stesso mese una frana di 800 mila metri cubi era infatti scivolata dal Toc e aveva provocato un vortice enorme, con conseguenze ben visibili sulle sponde. Anche il geologo salisburghese Leopold Muller avvisa la committenza di un rischio ormai innegabile ma l’azienda risponde realizzando un by pass che tutt’oggi scarica l’acqua del lago nel Piave, superando il futuro corpo frana (fu questo l’elemento che condusse alla contestazione agli imputati della prevedibilità dell’evento). Bisognava vendere l’impianto all’Enel che in quei giorni stava prendendo forma dopo la nazionalizzazione del settore.
9 ottobre 1963, 1.910 vittime
In meno di due minuti si consuma l’irreparabile. Nei primi venti secondi 300 milioni di metri cubi crollano nel sottostante bacino.
Nei restanti 80 secondi tre onde di fango e detriti si sollevano dall'invaso e si scaraventano attorno con una potenza pari a quella delle bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki unite insieme. Alla fine le vittime furono 1.917, le salme recuperate meno di 1.500 di cui meno della metà riconoscibili. 500 erano bambini.
Quando venne estratta viva dopo varie ore trascorse con la testa immersa nel fango si gridò al miracolo. Oggi Micaela Coletti è la presidente del comitato dei sopravvissuti del Vajont. Per lei quella notte del 9 ottobre 1963 rappresenta qualcosa di indelebile.
"Avevo 12 anni e da allora nulla è stato più come prima - racconta visibilmente commossa -. Nella tragedia ho perso i genitori, la nonna e una sorella appena tredicenne. Solo la salma del papà è stata ritrovata e riconosciuta grazie ad un documento che portava in tasca. L'ultimo ricordo che ho di loro è di natura sonora: sento mio padre partire inspiegabilmente in auto. Era un impiegato della Sade e si era sicuramente accorto della minaccia incombente. Credo stesse correndo a recuperare la mamma al lavoro per poi metterci tutti in salvo. Non fece in tempo. Subito dopo udii un boato fortissimo e la nonna che parlava di un temporale in arrivo".
"A quel punto ho avuto la sensazione che il letto volasse - ha rievocato la Coletti -. Pareva che nella mia stanza fosse entrato un treno e che mi avesse agganciato, trascinandomi in mezzo ad un rumore infernale di ferraglia. Volevo oppormi e scappare ma la forza che mi spingeva era bestiale. Mi sono messa le mani sul viso e temevo di aver perso gli occhi: quel gesto mi ha permesso di sopravvivere creando una bolla d'aria".
La ragazza fu letteralmente ripescata dalla fanghiglia grazie ad un vigile del fuoco che si accorse di un piede e di una mano fuoriuscire da una profonda pozzanghera di detriti. "Ado De Col mi prese sulle sue spalle e mi portò al sicuro - ha spiegato la donna che da una vita combatte per il riconoscimento dei diritti dei superstiti -. Qualcuno gridò che avevano recuperato una "vecchia" e io protestai dicendo che ero una bambina. Le mie condizioni erano tali che mi avevano scambiato per un'anziana. In cielo brillava la luna e io volevo camminare. Ma Ado insisteva a portarmi in braccio, facendosi male perché si scivolava e continuava a cadere.

Il pompiere fermò un'auto che non voleva accostare e intimò al conducente di affidarmi alle cure dei medici di Pieve di Cadore. Lì mi diagnosticarono un polmone perforato da una scheggia di legno". Da quel momento per Micaela ebbe inizio una dura rinascita con i tre fratelli sopravvissuti. Al suo capezzale si recò anche la principessa Titti di Savoia, "l'unica autorità che venne in visita a Pieve, gli altri si fermarono nella più comoda Belluno". Il più grande dolore dopo quello di aver perso gran parte della famiglia? "Mi hanno strappato ogni affetto, negandoci poi qualsiasi aiuto", ha detto con le lacrime agli occhi Micaela Coletti. "I soprusi sono stati innumerevoli, nessuno ci ha offerto neppure un lavoro dopo la tragedia", è stato il commento amaro della superstite.
Il processo, solo due condanne
Il 25 marzo del 1971, a 14 giorni dalla prescrizione che avrebbe lasciato intonse tutte le fedine penali degli indagati, arriva l’ultima sentenza del Vajont. La Cassazione condanna in via definitiva solo due degli originari 11 imputati.
L’ingegner Alberico Biadene è l’unico a finire fisicamente in manette: rimane in carcere a Venezia qualche mese perché 3 dei 5 anni di reclusione risultano condonati dall’amnistia. All’uscita del penitenziario, il progettista saluta i cronisti a bordo di un motoscafo dell’Enel e si reca in vacanza a Cortina. Il suo collega Francesco Sensidoni si vede invece addebita una condanna a 3 anni e 8 mesi, interamente non scontata.
Assolti o morti durante il processo tutti gli altri chiamati in causa. L’unico suicida risulta l’ingegner Mario Pancini che si tolse la vita qualche ora prima di partire per L’Aquila, sede del processo di primo grado. Il fascicolo è stato spostato da Belluno al tribunale abruzzese per timori di sedizioni popolari da parte delle genti del Vajont. La sentenza parla di “frana e omicidio colposo aggravato dalla prevedibilità dell’evento”, non accogliendo la tesi dell’accusa sulla dolosità delle condotte. Da qualche anno, dopo essersi miracolosamente salvate dal terremoto de L’Aquila del 2009, le carte processuali del Vajont sono conservate all’archivio di Stato di Belluno. A breve l’Unesco dovrebbe dichiarare la documentazione “patrimonio dell’Umanità”. E’infatti in corso la procedura di valutazione del materiale, interamente digitalizzato.
La tatuatrice e quel disegno che offende il Vajont
Ecco il disegno che offende la memoria del 9 ottobre 1963, immagine pubblicata su Facebook da una giovane tatuatrice di Parma, Gaia Laracchia Giustina, che per caso è stato individuato in internet da alcuni bellunesi.

La diretta interessata ha cancellato l’immagine, salvo poi giustificarsi parlando di satira e di humor nero. «Abbiate la decenza di capire quali sono le cose veramente gravi in Italia e se non lo capite andate a cercarlo su Google», ha replicato la ragazza, citando come esempio pratico l’omicidio della minorenne Sara Scazzi. La protesta in internet è allora entrata in una fase ancora più acuta, destinata ora a finire sul tavolo di un magistrato.
Lo scrittore ertano Mauro Corona ha condannato l’episodio. Anche le due amministrazioni civiche hanno sollecitato un mea culpa pubblico. "È stata mia figlia a farmi vedere quel disegno, e mi ha lasciato molto perplesso – ha dichiarato lo scrittore -. Chi è questa persona che l’ha realizzato? Chi è che si permette di usare questo nome per banalizzarlo con delle chiappe. Se una persona pronuncia la parola Vajont deve sapere che pronuncia un nome che rievoca due mila morti".
Corona azzarda anche un paragone: il paragone con l’olocausto, i campi di concentramento. Chi mai si permetterebbe di ironizzare su un argomento del genere? E anche quando gli anni saranno passati e i superstiti o i testimoni non ci saranno più, rimarrà la memoria. "La memoria non morirà mai – ha sottolineato Corona -. I bambini impareranno cos’è stato il Vajont e, a loro volta, lo insegneranno ai loro figli".
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