Il poliziotto che ha arrestato Battisti: «In Bolivia si sentiva al sicuro, ecco come l'ho preso»

UDINE. «Mi avete trovato». Drammaticamente banale, è l’annuncio della resa agli agenti della Polizia con lui in aereo.
Molte ore di volo, poche chiacchiere a colmare il silenzio - tra una domanda e l’altra, c’è stato spazio anche per il calcio - nel viaggio di Cesare Battisti, l’ex terrorista dei Pac condannato all’ergastolo per quattro omicidi commessi alla fine degli anni Settanta, compreso quello del maresciallo della polizia penitenziaria Antonio Santoro, a Udine.
Dopo 37 anni lo riportavano in Italia dalla Bolivia per scontare la pena. La sua cattura è stata una delle operazioni più importanti nella vita di Emilio Russo, oggi alla Direzione centrale per i servizi antidroga.
Di quella vicenda e dell’ondata di terrorismo che si abbattè sull’Italia negli anni di piombo si è discusso, in sala Madrassi, alla presentazione del libro “Guardie”, scritto da Daniele Repetto e Ansoino Andreassi e dedicato agli operatori delle forze dell’ordine che hanno pagato con la vita le violenze dei terroristi.
Tra questi anche Santoro, ucciso il 6 giugno 1978. L’incontro, organizzato dall’Associazione funzionari di polizia con l’obiettivo di mantenere viva la memoria di ciò che è stato e che non può essere rimosso, è iniziato con l’intervento video del capo della Polizia, Franco Gabrielli.
La parola è passata poi al procuratore di Udine, Antonio De Nicolo, a Repetto e, appunto, a Russo, che ha raccontato agli studenti di Copernico, Uccellis e Percoto l’esperienza vissuta dando la caccia a Battisti.
«Io e altri due colleghi siamo partiti per il Brasile perché dovevano consegnarci Battisti, ma quando siamo arrivati abbiamo scoperto che non c’era – racconta –. Dalla dichiarazione di latitanza ci siamo messi subito in contatto con la Bolivia e i Paesi vicini». Le indagini portano proprio lì.
«Siamo arrivati il 6 gennaio, Battisti aveva 24 giorni di vantaggio – continua –. Abbiamo ricostruito i suoi movimenti, ascoltando il gestore della locanda dove aveva soggiornato. Si era fermato 15 giorni».
È lui a svelare agli uomini dell’Interpol le sue abitudini, cosa mangiava, dove andava. «Il nostro obiettivo – spiega – era entrare nella testa di Battisti, studiarne i comportamenti, immedesimarci».
Battisti, per quanto esperto di fughe, mostra le sue debolezze. «Si sentiva troppo al sicuro in Bolivia e non ha adottato le accortezze necessarie – afferma Russo –. Sapeva di essere braccato, ma spesso si muoveva: si recava in un mercato vicino a questa locanda».
Ed è proprio durante una passeggiata pomeridiana che viene notato. «Aveva l’abitudine di camminare – ricorda –. Abbiamo individuato l’area in cui si trovava, sapevamo cosa faceva: probabilmente quel giorno era andato a farsi una birra».
Davanti alla Polizia, Battisti non apre bocca e non tenta la fuga. «Inizialmente, vedendoci in borghese, forse ha creduto di trovarsi di fronte ad alcuni rapinatori – dice ancora –, si è quasi tranquillizzato quando ha capito che eravamo della Polizia. Poi però ha scoperto che c’erano anche agenti italiani. Il suo stato d’animo è cambiato molte volte».
Battisti viene portato in caserma. Poi, di domenica, attorno alle 16.30, si parte per l’Italia. «Sull’aereo ci ha chiesto un libro, abbiamo provato a chiedergli con chi si trovasse e dove si nascondesse – continua Russo –, ma si straniva e così abbiamo affrontato temi più leggeri, di calcio.
Gli ho chiesto se fosse mai stato al Maracanà: era importante rispettare le tecniche di gestione dei catturati e mantenere basso il conflitto perché dovevamo fare un viaggio di molte ore. Era provato: dopo 37 anni tornava in Italia per scontare l’ergastolo».
All’evento hanno partecipato anche il segretario nazionale Anfp, Enzo Marco Letizia, il direttore del Carcere, Irene Iannucci, il questore Manuela De Bernardin, il prefetto Angelo Ciuni. —
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