Parla il collega del maresciallo ucciso da Battisti: «E' stato trucidato a sangue freddo, ora avrà giustizia»

Remanzacco, Franco Marchese lavorò per molti anni con Antonio Santoro. «Lui era un irreprensibile uomo dello Stato, adesso quel terrorista finalmente pagherà»

REMANZACCO. Suoniamo al suo campanello alle tre del pomeriggio. Di vista lo conosciamo da trent’anni, non si aspetta di vederci sul portone di casa. Apre la finestra al primo piano: «Santoro!», gli diciamo a voce alta. Non serve altro.

La risposta è immediata. «Vieni, ti apro, te lo spiego io chi era Santoro. Ho gioito quando l’hanno preso». Trenta secondi dopo Franco Marchese, 82 anni ben portati, perché anche la gamba che trascina da anni in paese è diventata il suo marchio di fabbrica, è nella sua taverna a parlarti del maresciallo Santoro. Tutti parlano di Battisti, del terrorista col ghigno e mai pentito, pochi parlano di una delle vittime di Battisti.

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«Era il 1962 o giù di lì - spiega - dal carcere di Volterra venni trasferito a Udine e lì conobbi il maresciallo Santoro». Poi Marchese scandisce bene le parole e, non bastasse, agita le braccia per farsi capire meglio. Non sente l’età. I ricordi d’improvviso diventano un fiume.

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«Era un signore nel suo lavoro e fuori dal lavoro. Era integerrimo in carcere, con noi agenti di polizia penitenziaria e con i detenuti. Dicono che i terroristi si siano vendicati di lui perché era duro con loro? Sciocchezze».

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Una cosa fa impressione: Marchese non fa mai il nome di Battisti. Mai.

Glielo facciamo notare. Fa una smorfia. Spiega: «L’ha ammazzato a sangue freddo, l’ha colpito alle spalle mentre il maresciallo usciva di casa per andare al lavoro. Il figlio piccolo stava andando a scuola, ha visto tutto. Il nome di un assassino del genere non lo posso fare, mi fa schifo».

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Dall’ex agente di polizia penitenziaria si ricava un ritratto preciso della vittima di Battisti. Preciso e sincero.

«Di una cosa Santoro per anni con noi si è sempre raccomandato: non si doveva creare la benché minima familiarità tra il detenuto e chi lo sorvegliava. Del resto, il nostro motto era “redimere vigilando”. Ora è difficile da capire, ma le carceri in quegli anni erano ben diverse da quelle attuali».

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Cesare Battisti l'11 febbraio 2004, il 18 marzo 2007, il 19 marzo 2007, il 10 Dicembre 2009; (S-D, sotto) il 9 giugno 2011, nel 2011, il 30 ottobre 2017, il 13 gennaio 2019 .

Marchese poi specifica e così racconta il suo comandante. Ricorda e rispetta le punizioni che gli inferse Santoro. «Era severo, ma giusto, sono stato da lui punito diverse volte, non mi vergogno a dirlo. Una volta era assolutamente vietato per i carcerati durante i colloqui abbracciare figli o mogli, o comunque parenti. Doveva esserci la distanza tra loro. Io alle volte chiudevo un occhio, qualcuno riferiva e Santoro interveniva». Non basta. Altro esempio.

«A qualcuno piaceva chiedere ai detenuti cosa avessero fatto per essere finito in carcere, quali reati avessero commesso. Niente da fare. Non si poteva fare. Le regole erano quelle e Santoro le rispettava. E credo una cosa: fosse stato davvero cattivo con i carcerati, violento con loro credo che il maresciallo sarebbe ancora vivo. È difficile da comprenderlo, ma credo sia così».

Arriva la moglie Licia, arriva la figlia Francesca. Marchese l’ha conosciuta durante il lavoro al carcere di via Spalato. Lavorava in una pasticceria di Udine, l’agente aveva cominciato a frequentarla nelle pause del lavoro. Sorride la moglie. Capiamo subito perché.

Riattacca il marito: «In quel periodo prima dell’omicidio mi è capitato di fare turni consecutivi di 24 ore i detenuti aumentavano e le guardie erano sempre poche. Giorni liberi? Saltavano spesso». Cambiò “la mappa” dei reati. Arriva la figlia Francesca. Il padre continua: «Udine era un carcere giudiziario, piccoli reati, furti, altre cose minori, pene lievi, grande turnover. Il Friuli era diverso da quello di adesso.

Poi cambiò qualcosa: il terrorismo ci fece arrivare detenuti veneti, lombardi. Quello là non me lo ricordo, altri terroristi sì: erano più istruiti, le guardie li rispettavano di più e loro in risposta le trattavano malissimo».

Volavano anche manganellate in via Spalato. «Semplice: l’ora d’aria finiva e i detenuti si rifiutavano di rientrare in cella, dovevamo chiamare i carabinieri». Poi quel giorno. Marchese dopo il terremoto aveva lasciato il carcere, lo Stato aveva dato la possibilità alle forze di polizia di diventare civili. Andò a lavorare in una scuola a Cividale.

«Ma quel giorno non lo dimenticherò mai». Si commuove. Continua: «Il funerale, i miei colleghi sconvolti». Ha da poco spento la tv Marchese, ha visto l’arrivo di Battisti atteso a Ciampino da due ministri.

«Ho apprezzato le parole del ministro della giustizia Bonafede, il mio ministro, perché io sarò sempre un agente di polizia penitenziaria. Ho sentito che quell’assassino è stato trasferito nel carcere di Oristano, bene così, Rebibbia per lui sarebbe stato un albergo».

Battisti non si è mai pentito. «Neanche una lettera ai parenti delle vittime. Eppure sapeva scrivere bene visto che gli pubblicavano anche dei libri: vada in carcere, avrà modo di riflettere», chiude. Il carcere serve a quello: coercizione per aver modo di riflettere e capire gli errori commessi.

Santoro lo ripeteva sempre. È vero, ho anche pensato che forse era meglio se fosse morto quell’assassino, lo hanno pensato tutti i suoi colleghi, ma il carcere è il suo posto. Avrà modo di pensare» Salutiamo. Marchese ci ferma: «Sono originario di Lecce, ho una bottiglia di Primitivo, vino da 21 gradi. Ora chiamo i miei colleghi agenti e la stappo. Ha vinto la giustizia, non la vendetta». —


 

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