Zoro Bianchi: «La mia blog-tv va in direzione ostinata e contraria»

Il conduttore di “Propagandalive” ha vinto il Luchetta per un reportage sul Congo: «Volevo raccontare le Ong impegnate “a casa loro”». Sabato il premio a Trieste

Diego Bianchi, più familiare al grande pubblico come ‘Zoro’, è il vincitore del premio Luchetta 2019 nella categoria “reportage”. La premiazione è in programma sabato 11 a Link, il Festival del buon giornalismo, a Trieste, in Piazza Unità trasformata per l’occasione in un’agorà con i protagonisti dell’informazione del nostro tempo dedicata ai temi di attualità. La scelta della giuria che ha individuato Bianchi, riconosce così l’emozionante “Diario di viaggio in Congo” in onda nel programma “Propagandalive”, nel quale Zoro ha testimoniato con uno stile unico, l’emergenza che colpisce in particolare i più indifesi: i bambini, allo stremo per la malnutrizione, le epidemie, gli scontri armati, i conflitti.

Blogger, giornalista, reporter, regista, attore, rivelazione televisiva degli ultimi anni, il tipo di riprese e il commento al materiale video in trasmissione con gli ospiti fissi, consegna al pubblico continui spazi di riflessione mai urlata. A questo, si sommano una particolare e costante attenzione a chi è davanti alla telecamera, (l’intervista a Vanda Prosperi, trasmessa in occasione del 25 aprile è una delle cose più vere, commoventi e utili, viste in tivù, ndr.) che lo hanno fatto conoscere e apprezzare da chi lo ha scoperto su Raitre, (Parla con me), lo ha seguito a “Gazebo” e continua a vederlo su La 7, dove la trasmissione va molto bene.

«In Congo ci sono andato da solo, per otto giorni, ero la “troupe” di me stesso – racconta con l’ironia che lo contraddistingue –. Volevo raccontare le Ong, ma non attraverso lo scenario relegato al salvataggio in mare che è solo una parte, importante della loro attività, ma grazie alla loro presenza in territori dimenticati e sconosciuti. Insomma volevo vedere ’sta “casa loro”, che tanto torna nei discorsi ultimamente, vederli nell’Africa più Africa dove si sopravvive solo grazie all’aiuto di associazioni umanitarie.

In Congo – prosegue – esistono circa 300 tribù, ciascuna ha la propria lingua e le proprie tradizioni, ognuno possiede un’arma. Ci sono guerre civili, rapimenti, bande armate. A quattrocento kilometri da dove ci trovavamo era scoppiata un’epidemia di Ebola. Medici senza Frontiere sono un’istituzione in quei luoghi. Sono apprezzati da tutti anche perché curano tutti, arrivano con le cliniche mobili per raggiungere i posti più sperduti e portare cibi e medicinali. I bambini sono quelli che pagano il prezzo più alto. Mi rendo conto che raccontare il Congo non sia nelle priorità nelle agende delle cronache, ma è proprio per questo che ho voluto farlo».

Il giornalista americano Hunter Thompson ha individuato come “gonzo” un particolare stile di scrittura. «A un certo punto – ha scritto Thompson – una delle principali ragioni per cui ai politici americani è stato permesso di essere tanto corrotti a lungo è proprio per un giornalismo oggettivo. Non si può scrivere di Nixon ed essere oggettivi», ha detto.

Diego Bianchi, che tipo di giornalismo fa? «Mi rendo conto di fare giornalismo in maniera spontanea. Mi piace raccontare la mia esperienza in relazione a determinati concetti. Per certi versi cerco di “subire” il racconto che mi viene fatto. Quando giriamo, c’è un programma di massima. Mantengo una certa distanza, faccio da tramite. Chi ti vede, si deve fidare. Per questo vanno in onda anche cose concrete, i viaggi, cosa mangio, le piccole avventure. Fin dall’inizio abbiamo cercato di scardinare la grammatica del reportage. Ha funzionato, credo. Perché quello che è importante è il contenuto».

Laurea nel 1994 in Scienze politiche con una tesi su la Rete di Leoluca Orlando e la Lega. «Il mio professore era Domenico Fisichella che divenne senatore e ministro nel primo governo Berlusconi. Mi ero concentrato sui nuovi partiti, uno per la sinistra e uno per la destra.

Sulla Lega non c’era niente allora, qualche libro di Miglio e Bossi. Andavo nella sede della Lega a prendere materiale e conducevo la mia personale battaglia attaccando adesivi della Rete, nell’ascensore – racconta ridendo –. Sono cambiati gli slogan. Razzisti erano e tali sono rimasti. Allora dicevano che erano folklore e provocazione, non era una scusante, già facevano ribrezzo. E da romano ricordo bene cosa dicevano. La propaganda, gli slogan, come quello dei “porti chiusi”, che chiusi non sono, si è fatta ora operatività di Governo. Non credo che quanto facciamo su La 7 faccia piacere al potere. Ma del Paese “che si pensa” raccontiamo una linea diversa. Noi andiamo in destinazione ostinata e contraria».

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