Quell’italiano morto lasciato due anni lassù sull’Eiger

UDINE. Mesto anniversario quello del 9 luglio, per chi ama la Montagna. Svizzera, Oberland Bernese. Firmato un accordo con un giornalista olandese, il 9 luglio del ‘59 il corpo di Stefano Longhi veniva recuperato dalla Nord dell’Eiger, da 23 guide elvetiche.
Pietismo? Filantropia ipotizzerà qualcuno? Non proprio; un contratto, un business: novemila franchi in cambio dell'esclusiva delle foto del cadavere destinate a finire sul periodico francese Paris Match, sul settimanale italiano L'Europeo e sull'olandese ABC Press.
Il corpo di Longhi, alpinista lecchese morto nel tentativo di effettuare la prima salita italiana della parete, era stato lasciato penzolare in fondo alle sue corde per due anni, diventando una macabra attrazione per torme di turisti che facevano la fila dietro i telescopi a monetine noleggiati dagli albergatori di quel civilissimo Paese.
Claudio Corti, compagno di cordata di Longhi, tratto in salvo con un cavo d’acciaio calato dall’alto da cinquanta soccorritori di sei nazionalità diverse, senza che le guide locali muovessero un solo dito, era stato accusato di aver abbandonato Longhi al suo destino e di essersi “sbarazzato” di due giovani scalatori tedeschi legati alla sua corda di cui si era persa traccia.
Grande accusatore, l'alpinista carinziano Heinrich Harrer interpretato sullo schermo da un ossigenato Brad Pitt in Sette anni in Tibet. Forte di aver fatto parte della prima cordata austro tedesca che nel ‘38 aveva vinto la parete, Harrer, autore del Ragno Bianco, nel suo best seller tradotto in tutto il mondo, aveva dedicato un intero capitolo al dramma di Corti.
Dopo il ritrovamento dei corpi dei due giovani tedeschi sul versante Ovest nel 1961, fatto che scagionava Corti dal più grave dei sospetti, tutti si aspettavano che il maestro e confidente del Dalai Lama, si ravvedesse e tornasse sui suoi passi. Macché. Harrer si era rifiutato sdegnosamente di riconoscere i suoi pregiudizi, dando il la a un battage pubblicitario senza precedenti.
A capo di un’ondata xenofoba per la quale Corti non era poi tanto diverso dai suoi connazionali emigranti che vivevano nelle baracche e lavoravano nelle fabbriche e nelle miniere di Svizzera e Germania, il carinziano non aveva abiurato un solo rigo, rivelando agli occhi di un lettore accorto, un modo di essere che apparteneva a una razza che considerava traditori gli italiani in una guerra non così lontana.
«Non mi sono mai iscritto al Partito Nazionalsocialista e non ho mai fatto parte delle camici brune di Hitler», aveva ribadito l'arzillo scalatore durante le interviste. Per inchiodarlo ci volevano prove. Stretta amicizia con un collega berlinese, un bel mattino il mio fax sputa fuori tre fogli che fanno parte del Nazi-Akte, il dossier di Harrer desegregato dagli americani con il materiale requisito ai tedeschi dopo il ‘45.
Il primo foglio altro non è che l'iscrizione al partito Nazionalsocialista avvenuta il 1° maggio del ‘38, numero di tessera 6307081. Sul secondo foglio si può leggere: Heinrich Harrer, nato il 6 luglio 1912 e più sotto: Unità SS, numero di matricola 73896.
Nel curriculum vitae compilato di proprio pugno, Harrer specifica di far già parte delle SA, la seconda organizzazione terroristica di Hitler. Nel terzo foglio è ritratto in età giovanile in due foto.
Nel primo scatto è immortalato in divisa da Oberscharfuher, con il colletto ornato dalle piastrine a testa di morto. Nel secondo mentre appende un guidoncino con la croce uncinata al tirante di una tenda piantata al cospetto della parete nord dell’Eiger.
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Riproduzione riservata © Messaggero Veneto