Pfm e De Andrè, 40 anni fa: «Tra chiacchiere e vino è nato quel capolavoro»

Il ricordo più bello di De André? «Difficile dirlo, forse la cosa più bella è stato tutto il tour e il disco che ne è uscito».

Fu uno di quegli eventi destinati a entrare nella storia della musica: l’incontro tra la Premiata Forneria Marconi e Fabrizio De André, tra il potere trascinante della musica, della buona musica e della grande poesia. Era il 1979 e furono un concerto e un tour memorabili. Ora quel concerto rivive in “Pfm canta De André”, in scena il 12 novembre al Giovanni da Udine

Non era la prima volta, però, che la Pfm incontrava De André: «avevamo già lavorato con lui nel ’69 al disco “La buona novella” – racconta il frontman della Pfm Franz Di Cioccio –, ma sul palco insieme mai. Nell’estate del ’78 Fabrizio venne a sentirci a Nuoro, e ci invitò a casa sua. Si era ritirato in Sardegna, voleva fare il contadino, di sicuro era tormentato e voleva smettere con la musica. Fatto sta che, tra un bicchiere di vermentino, molte chiacchiere sulla musica, l’atmosfera un po’ rilassata, mi venne di chiedergli perché non facciamo qualcosa insieme? Qualcuno lì presente fece notare a Fabrizio, che era persona determinata, ostinata e contraria, che insomma qualche rischio c’era a mettersi con noi, che eravamo ragazzotti scapigliati cappelloni, alla ricerca di un modo di fare musica meno legato alla forma canzone, più libero, anche perché eravamo reduci da una tournée in America e lì la musica non aveva confini. Ma fu proprio questo che lo fece accettare, “è pericoloso?, allora belin lo faccio! E fu un’esperienza bellissima».

Il ricordo più bello di De André? «Difficile dirlo, forse la cosa più bella è stato tutto il tour e il disco che ne è uscito».

Quanto manca De André oggi alla musica? «Manca perché era uno spirito critico forte, sapeva cogliere le sfumature e sapeva da che parte stare, aveva ironia e la capacità di mettere avanti a tutto il lato più umano delle cose. E poi era un poeta, uno che le parole le usava sempre a proposito, finalizzate a dire la cosa giusta al momento giusto. Non c’è mai banalità o scontentezza nella sua scrittura».

Voi siete stati i campioni della musica progressive, che sta tornando, come il vinile: che i giovani stiano riscoprendo un mondo? «Io da sempre detesto la preclusione di un genere con un altro. Il mondo cambia, va avanti, però se non sai quello che c’era prima è difficile pensare a quello che verrà, le radici sono importanti. E poi devo dire che la musica è bella tutta, è un dono che è arrivato all’uomo, non importa da chi e da dove. La musica è quella che scegli tu, anzi è la musica che ti sceglie. Rifarsi o riandare al passato è sempre accaduto, anche quando abbiamo iniziato noi».

Recentemente lei è stato inserito tra le 100 icone della musica che hanno cambiato il nostro mondo secondo la rivista inglese “Prog Uk”, unico artista del mondo latino in una prestigiosa classifica insieme a nomi del calibro di Brian Eno, David Gilmour, Frank Zappa, Peter Gabriel, Kate Bush, Paul McCartney, Ian Anderson, Mike Oldfield, Robert Freep, Alan Parson, tra gli altri. Che effetto le fa? «Sono rimasto molto colpito. Perché a colpire il giurato che ci vide in concerto a Gettysburg (Pennsylvania) nel maggio del 2018, fu il mio modo di cantare e di stare sul palco, quando lascio che la parte emotiva di me sgorghi libera, e contagi il pubblico, ci metto tanto istinto, nessuna preparazione, vivo la musica sul momento con energia, col cuore, col sangue, vado sul palco guardo la gente, e mi lascio prendere dalle loro reazioni. È pura magia. E mi fa piacere sapere che quel giurato ha premiato soprattutto il mio modo di essere musicista».


 

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