Pasolini e Biagio Marin: nelle lettere inedite il confronto e il valore di una vera amicizia

Escono in un volume curato da Pericle Camuffo: la differenza di vedute sulla poesia e sulla politica

Maria Cristina Benussi
Pier Paolo Pasolini e Biagio Marin e, in basso, la copertina del volume curato da Pericle Camuffo
Pier Paolo Pasolini e Biagio Marin e, in basso, la copertina del volume curato da Pericle Camuffo

UDINE. Sebbene fossero state pubblicate da tempo le lettere di Pier Paolo Pasolini a Biagio Marin, del carteggio erano rimaste inedite quelle del poeta gradese. Erano ben 97 e si possono ora leggere nel volume Biagio Marin, “I chiaroscuri di un affetto vero”.

Lettere a Pier Paolo Pasolini 1952-1969 (Edizioni Marco Petrini pp. 194, euro 20), con la cura e l’attenta Introduzione di Pericle Camuffo. Documentano un rapporto iniziato nel 1951, quando un sessantenne Marin poteva vedere finalmente stampati dall’editore Del Bianco di Udine i suoi “Canti de l’Isola”.

Ma a mancargli era il riconoscimento dell’intellighenzia nazionale, che dopo un paio di mesi di ansiosa attesa gli era inaspettatamente venuto dal giovane Pasolini. Quell’articolo, uscito sul “Popolo di Roma”, gli piacque per la definizione della sua poesia e della sua anima «immerse nel non tempo del mare» e per l’immagine del suo mondo poetico quale «isola».

Pasolini, che a Casarsa nelle sue prime raccolte di versi aveva scoperto la vitalità del dialetto, era diventato così il suo punto di riferimento, anche per i contatti procuratigli con importanti intellettuali, scrittori ed editori italiani, tra cui Vanni Scheiwiller. Fu proprio quest’ultimo a pubblicargli nel 1961 l’antologia Solitàe, curata dal poeta friulano.

Le lunghe lettere di Marin e le più sintetiche risposte di Pasolini da una parte dimostrano la crescente familiarità tra i due e l’affetto sincero che li legava, dall’altra palesano la loro profonda differenza su questioni di poetica.

Per Pasolini quello di Marin, con quel suo «sapore di provincia un po’ chiusa» nella sostanziale ripetitività di colori e parole, si rivelava col tempo un canzoniere minimo, fragile, che aveva nella monotonia e nella «strettezza di prospettive» i propri limiti: l’isola si stava dunque chiudendo su se stessa, tranne che nella raccolta Minudagia. Qui infatti, secondo Pasolini, riusciva a emergere tutta la «violenza» di cui l’amico aveva fatto esperienza durante l’infanzia nei «vasti orizzonti di mare e di cielo» che costituivano il suo universo.

Restituire il mondo attraverso la «violenza» significava per Pasolini entrare nelle pieghe segrete della propria carne, interrogare e vivere la realtà in maniera viscerale ed «erotica».

Le lettere ben documentano la preoccupazione di Marin che, insicuro sul valore della propria poesia, controbatteva alle riserve del suo mentore mentre continuava a chiedergli giudizi sinceri, a ricordargli il suo bisogno di riconoscimenti critici sempre troppo rari e a lamentarsi per la sua esclusione da alcuni importanti premi letterari su cui aveva contato.

Bene ha fatto dunque Pericle Camuffo a inquadrare le sue missive sullo sfondo della scrittura parallela di carte private, poste in appendice al volume, insieme agli scritti di Pasolini su Marin e ai giudizi di Marin su Pasolini in un’intervista “ufficiale” curata da Renzo Sanson. Abbondanti nei diari, quasi assenti nelle lettere, sono infatti le obiezioni che l’amareggiato poeta riversava sulle pagine letterarie dell’amico scrittore sempre più attratto da altri orizzonti narrativi, come il cinema.

L’idealismo di matrice crociana, che Marin aveva assorbito negli anni della sua giovinezza, non gli consentiva dunque di consuonare con un’estetica di tipo marxista quale aveva abbracciato, con tutti i possibili “distinguo”, Pasolini. E così una questione di poetica diventava in qualche modo una riflessione etico-politica che chiamava in causa due ostacoli non rimovibili: marxismo e omosessualità.

Del marxismo Marin avversava, tra l’altro, l’idea di una cultura negatrice della dignità della tradizione culturale europea, nonché la colpevolizzazione senza appello della borghesia, di cui Pasolini oltretutto gli pareva figlio fedele.

La sua «sregolata vita sessuale» lo avrebbe poi condotto a una condizione di minorità e di fiacchezza, indebolendo un carattere che, per Marin, doveva essere forgiato sulla forza e sulla disposizione al sacrificio.

Nelle lettere emerge invece la preoccupazione per le scelte di un intellettuale che col passare del tempo era diventato sempre più centrale nella cultura italiana degli anni Sessanta/Settanta e che dunque da lui si stava inesorabilmente allontanando. Se ne lamenta e, nel rapporto padre/figlio che tra loro nel frattempo si era stabilito, sembra davvero preoccupato per quel ragazzo che stava sprecando tempo e intelligenza in frenetiche attività effimere, piuttosto che in lavori di più ampio e duraturo respiro.

Nell’ultima lettera, datata 16 settembre 1969, Marin si mostra lietamente sorpreso di sapere che la sua prossima silloge, La vita xe fiama, in pubblicazione presso Einaudi, avrà ancora una volta la prefazione di Pasolini: e non sa ancora che proprio in quest’occasione il critico riconoscerà infine il valore dei suoi versi, che parlano sì dei soliti temi dell’isola, ma finalmente trasformati in simboli ossessivi, in «uno stupendo materiale eterno, una pietra, l’oro».

Dopo la fine orrenda di Pasolini, l’anziano poeta scriverà di getto litanie in sua memoria, dove, anche per la purificazione che la morte concede, riconosceva il valore indiscutibile delle poesie friulane dell’amico, con cui poteva finalmente condividere l’incanto fraterno delle loro due “isole”, Casarsa e Grado. —

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