Natale come festa pagana mentre il vero cristiano celebra Gesù ogni giorno

LA RIFLESSIONE
Valerio Marchi
Natale festa di famiglia, lo conferma il detto «Natale con i tuoi, Pasqua con chi vuoi». Regali, Babbi Natale, centri commerciali presi d’assalto, luci, addobbi, presepi, solidarietà, auguri, vacanze, neve (almeno in qualche parte del mondo, finché dura), falò, concerti, tavole imbandite, panettoni e cinepanettoni; se poi ci sta anche una messa, tanto meglio. Troppe cose diverse mescolate? Sì, è vero, un servizio di culto non è sullo stesso piano delle palle di neve e un concreto gesto di solidarietà non va accostato a uno sdolcinato film natalizio. Ma è proprio questo che avviene a Natale. Il garbuglio è inestricabile sin dalla sua genesi.
Se, molto banalmente, consultassimo un’enciclopedia, avremmo la conferma che il Natale è nato – chiedo venia per il gioco di parole – nel IV secolo, allorché a una festa pagana si sovrappose la decisione di celebrare la nascita di Cristo (di cui peraltro ignoriamo giorno, mese e anno: evidentemente i redattori dei quattro Vangeli ritenevano irrilevanti, ai fini della fede, questi dati anagrafici). Al pari di altri casi di contaminazione fra cristianesimo e paganesimo, anche questa festa incontrò il favore popolare, testimoniato e al tempo stesso incrementato nel corso dei secoli dall’apporto di suggestive celebrazioni e usanze di provenienza varia (romana, germanica, anglosassone…).
“Natale” significa “che riguarda la nascita”. Nel nostro caso, la nascita di Gesù di Nazareth. Se è lui il “festeggiato”, allora va anche rispettato, e il modo migliore per farlo è attenersi ai documenti che hanno comunicato al mondo quel che di lui sappiamo, ossia ciò che è stato testimoniato dai suoi primi discepoli e dagli scrittori sacri del Nuovo Testamento (apostoli, altri testimoni della primissima ora e discepoli comunque collegati agli apostoli). L’enfasi dei Vangeli (Matteo, Marco, Luca e Giovanni), delle lettere apostoliche (di Paolo, di Pietro…) e dell’Apocalisse di Giovanni è posta sempre e solo sulla necessità di comprendere chi è Gesù Cristo, di credere in lui e di vivere secondo i suoi insegnamenti: è questo che deve fare un discepolo (termine che indica “chi riceve e segue l’insegnamento di un maestro”).
Gesù – secondo ciò che dicono i Vangeli – è nato per portare la più alta rivelazione di Dio e per far sì che chiunque possa conoscere il Padre e avere la vita eterna. Ma lo stesso Gesù richiede una sequela incessante, consapevole, impegnativa: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda ogni giorno la sua croce e mi segua» (Luca 9, 23 – e sorge spontanea la domanda: non sarà che “Gesù bambino” lo preferiamo perché non ci dice cose di questo tipo? ). “Vangelo” significa “buona notizia”, e la buona notizia è: «Il tempo è compiuto e il Regno di Dio è vicino. Ravvedetevi e credete al Vangelo» (Marco 1, 15). Ma la si dà concretamente questa notizia, a Natale?
Per diffondere un generale (e spesso generico) sentimento di fratellanza e bontà, di cui peraltro gli uomini sono sempre stati capaci, non serviva certo che Gesù nascesse, predicasse (ma quanti si premurano di conoscere bene il Nuovo Testamento?), desse il suo esempio, facesse miracoli, morisse sulla croce, risuscitasse e ascendesse al cielo… E allora, forse, sarebbe meglio dire apertamente che il Natale è una festa di fatto pagana (uso il termine senza alcun tono spregiativo) e dargli un nuovo nome: per i romani era il “Dies natalis solis invicti”, noi potremmo sceglierne un altro.
E la festa dei cristiani? Quella c’è sempre, per chi la vuole celebrare: “cristiano” significa “seguace di Cristo”, e non si tratta di un impegno di qualche giorno all’anno. Il “Natale” dei cristiani è una festa – e al tempo stesso una fatica – quotidiana. —
Riproduzione riservata © Messaggero Veneto