Le foibe spiegate ai ragazzi: il libro di Greta Sclaunich
Il volume, realizzato in collaborazione con l’Associazione nazionale Venezia Giulia e Dalmazia edito da Piemme con prefazione di Enea Haffner, racconta un pezzo di storia italiana che ancora fatica a trovare spazio nei testi scolastici e nella memoria collettiva

Partire o restare? Una scelta dolorosa e necessaria per migliaia di persone in Istria e Dalmazia all’indomani del 10 febbraio 1947. Quel giorno, le potenze vincitrici della Seconda guerra mondiale riunite a Parigi firmano il trattato di pace con l’Italia. Ci sono Stati Uniti, Unione Sovietica e Gran Bretagna. Ci sono i rappresentanti dei Paesi che si sono uniti a loro, come Cina, Francia, Belgio, Bielorussia, Brasile, Cecoslovacchia, Etiopia, Grecia, Paesi Bassi, Polonia, Ucraina. E c’è anche la Jugoslavia. Le condizioni sono state fissate dalla Conferenza di pace del 15 ottobre 1946: saranno ripristinati i confini precedenti alla guerra e l’Italia perderà le colonie in Africa. Quanto al travagliato confine orientale, gran parte dell’Istria e la totalità della Dalmazia finiranno alla Jugoslavia. Il destino di Trieste e dei paesi limitrofi pare incerto: si progetta il TLT, territorio libero di Trieste, indipendente, demilitarizzato, neutrale, sotto l’egida dell’Onu. Una zona A, amministrata da un governo militare alleato, e una zona B, quella orientale a ridosso dei nuovi confini con la Jugoslavia, affidata all’esercito del Paese comunista.
Per giuliani e dalmati che vivono nei territori assegnati alla Jugoslavia il futuro è un grande punto interrogativo. Restare significa perdere le proprietà che saranno nazionalizzate, dimenticare la lingua italiana e diventare jugoslavi. Andare ed esercitare la cosiddetta opzione è il solo modo per restare italiani, varcando il confine. In trecentomila decidono di partire, stipando nelle casse e nei bauli, oggetti, vestiti, fotografie, infilandosi in tasca un pugno di terra, stringendo fra le mani la chiave di una casa destinata ad altri e portandosi dietro perfino le bare dei propri cari per non lasciare neanche i morti dall’altra parte. Perché «una linea di confine non basta per definire l’identità di chi è nato in un territorio dove si mescolano popoli e culture diverse».
A sostenerlo è Greta Sclaunich nel suo libro Le foibe spiegate ai ragazzi realizzato in collaborazione con l’Associazione nazionale Venezia Giulia e Dalmazia edito da Piemme con prefazione di Enea Haffner nel quale racconta un pezzo di storia italiana che ancora fatica a trovare spazio nei testi scolastici e nella memoria collettiva.
Giornalista del Corriere della Sera che ha collaborato con il Messaggero Veneto, Sclaunich è originaria di Villesse, terra di confine, dove il mondo germanico, quello slavo e quello latino si sono intersecati e fusi. Il suo viaggio in una storia complessa stratificata, come lo è il suo cognome, italiano ma non solo, inizia a raccontarla attingendo a ricordi personali, intimi. Abbracciando il ricordo dello zio Franco, italianissimo, nato a Umago, perché Umago una volta era Italia. Un esule che a distanza di decenni torna “di là” per rivedere i luoghi dell’infanzia e mostrarli alla famiglia. Di quella vita passata ormai resta poco: una fotografia sbiadita del 1951 che lo ritrae assieme ai compagni di squadra militanti nel calcio giovanile di Umago. È un racconto che procede per capitoli, per vite vissute, come quella di Erminia che rischia di finire in una delle foibe disseminate sull’altipiano del Carso che ne conta circa millesettecento. La sua vita serena cambia con “el ribalton”, quando a seguito della resa incondizionata agli Alleati firmata dal maresciallo Badoglio, l’esercito italiano viene lasciato senza direttive e prima di essere disarmato dai nazisti di Hitler che occupano il Paese vede l’avanzata dei partigiani comunisti guidati dal leader della resistenza in Jugoslavia Josip Bora Tito che iniziano una rappresaglia contro i fascisti.
Le radici dell’ostilità sono profonde: non solo l’Italia fascista era in guerra contro la Jugoslavia. Istria a Dalmazia facevano parte della Venezia Giulia divenuta italiana dopo la Prima guerra mondale e viveva una società spaccata in due: da un lato gli italiani, liberi di parlare la propria lingua e di portare avanti la propria cultura, benestanti e inurbati sulle coste, dall’altro gli slavi e le minoranze, più poveri e arretrati, che vivevano nell’entroterra, obbligati a mettere la parte la propria identità. Erminia Cossetto fugge a piedi da Santa Domenica dopo aver sputato in faccia a un partigiano titino. Graziano Ludovisi in una di quelle foibe ci si è butta dopo una marcia forzata fra i boschi, penultimo in una fila di sei compagni imprigionati e torturati poi legati con un filo di ferro. «Meglio buttarsi in quel pozzo buio che essere uccisi da un proiettile» si ripete. E in fondo a quel pozzo che custodisce i cadaveri trova la salvezza e il coraggio di risalire per poi scappare in Italia. Claudio Branzolin di quella domenica assolata del 18 agosto 1946 sulla spiaggia di Vergarolla ricorda l’urlo dei gabbiani che scendono in picchiata nella pineta a cercare cibo. È sul pontile a pescare quando le vite di un centinaio di persone vengono spezzate dallo scoppio di nove tonnellate di esplosivo. Una strage che non ha avuto responsabili certi, ma dietro alla quale ci sono indizi che conducono alla OZNA, la polizia politica jugoslava.
Scorrono i ricordi di famiglie divise tra Italia e Jugoslavia come quella di Italia Giacca, altre smembrate dalla deportazione nei campi di sterminio nazisti, è il caso di Tatiana e Andra Bucich, ebree ribattezzate Bucci, così simili da sembrare gemelle, miracolosamente risparmiare dagli esperimenti di Josef Mengele, esuli fiumane. E ancora gli esuli della seconda ondata, quella successiva al Memorandum di intesa di Londra del 1954, come la famiglia Godas. Infine le testimonianze della vita difficile nei campi profughi, negli stanzoni della Risiera di San Sabba, al Silos di Trieste o a Opicina. E il successivo, complessoo, percorso di integrazione. O il racconto di chi ha voluto restare, come Maria Zangola.
Memorie sparse, unite da un unico filo rosso: la volontà di «dare il giusto valore alle parole di chi racconta la storia dell’esodo. Senza odio, ma nel rispetto della sofferenza di chi ha dovuto lasciare la propria terra e della memoria di chi non c’è più» come afferma l’autrice.
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