Lavora a una meditazione su Guernica

Nello studio di via Fabio di Maniago una tela monumentale in bianco e nero

UDINE. A 85 anni Giorgio Celiberti ha creato due capolavori ricchi di forza, di sapienza costruttiva, d’impeto giovanile: la “Meditazione sul Crocifisso” e l’“Omaggio a Picasso”. Suddivisi in tre comparti ciascuno i teleri misurano 9 metri e 60 di base e 2,15 d’altezza e innestano sul tema figurativo una straordinaria ricollocazione autobiografica.

Le immagini, rese con intrecci di segni bianchi intrisi di pulsioni, di vibrazioni, di tremiti, si proiettano su uno schermo nero prefigurante, forse, l’oscurità dell’inconscio. A ispirare la prima composizione è stata la visita alla recente mostra del monumentale Crocifisso di Cividale, esposto dopo il restauro a Palazzo de’ Nordis.

Sull’enorme spazio scuro si collocano quattro figure di Gesú, di tre quarti o intere, mutile come lacerti di statue, intervallate da “piastre” istoriate di scritture arcane che riportano in pittura le composizioni delle lastre metalliche e delle superfici dei Totem scultorei realizzati dal maestro udinese, fitte di lampeggianti messaggi indecifrati portati da un vento turbinoso.

La struttura figurativa scaturisce dalle tracce grandiose della “Crocifissione” di Cimabue nella Chiesa Superiore di Assisi, da quella sua energia compositiva, da quel sentimento violento di fierezza che si potrebbe definite dantesco.

Ad accentuarne la vertigine visiva è la degenerazione chimica che ha rovesciato il positivo cromatico in una sorta di negativo fotografico accettuando cosí la surreale tragicità dell’insieme. Sull’onda dell’ammirazione per il capolavoro cimabuesco, nel quale le figure si presentano simili piú a una sinopia che a un dipinto, Celiberti ha posto come cardine dei suoi riferimenti culturali ed emotivi proprio Assisi.

L’”Omaggio a Picasso”, invece, è una meditazione sul dipinto “Guernica”, del quale l’opera di Celiberti riecheggia l’impostazione strutturale, conservando la bicromia bianco-nero dell’originale, ma alterandone le dimensioni (la tela picassiana misura metri 7,70 di base e 3,45 di altezza).

Come Guernica l’Omaggio è un conglomerato di pensieri onirici. Nel magma grafico e nel livido chiarore delle “piastre” s’individuano la Testa di toro e una mostruosa Testa di donna da Guernica.

«L’opera di Picasso – dice Celiberti – è un punto fermo nella storia dell’arte. Tutti noi artisti italiani del secondo dopoguerra abbiamo ammirato il suo coraggio di denuncia. Piú che eseguito il mio quadro è sognato. È uscito istintivamente dall’immaginazione, dettato da un empito di amore».

Dalla morcia di segni e d’impronte dell’ “Omaggio” spilla l’olio purissimo della rimembranza e appaiono come in dissolvenza le “Nature morte” realizzate da Celiberti tra la fine degli anni Cinquanta e la prima metà dei Sessanta, nelle quali sintesi cromatiche brillanti e fosforescenti, chiuse dentro grossi contornati nero-carbone, richiamano, oltre a influssi di Braque, evidenti citazioni picassiane.

All’inizio della produzione pittorica del maestro udinese il figurativismo appariva influenzato dagli echi dei fauve, del postimpressionismo, del cubismo. I Paesaggi urbani erano resi con pennellata veloce e richiami a de Pisis. Una svolta decisiva nella sua creatività fu provocata dalla visita al lager nazista di Terezin, dove morirono migliaia di bambini ebrei.

Attraverso spezzoni di storie anonime egli cominciò a delineare la storia della violenza nel mondo, rivelando col gesto creativo un patrimonio di memorie devastate, ma anche di aperture alla speranza. Da qui discendono negli anni Settanta i luminosi “Fiori”, i fossili di “Farfalle”, gli “Uccelli” eleganti come fregi di porcellane persiane librati su cieli oltremarini.

Dalle concrezioni organiche divenute reperto mineralizzato l’artista passò ai “Muri” e ai “Pavimenti”, alla maniera dell’opus incertum, dell’opus reticolatum, dell’opus latericium usati nell’edilizia romana e rimeditati durante le sue “passeggiate archeologiche”. A gioioso fulgore si impronta il grandioso affresco realizzato nel 1991 sulle volte di un albergo di Shirahama, in Giappone.

Fiori, farfalle, lampeggianti intrichi di “segni” vegetali danno spettacolare espressività ai temi della vita, dell’amore, della libertà. Nel corso degli anni il carattere lirico delle pitture si è arricchito. Un magico filo d’Arianna collega l’esperienza di Terezin alla creatività successiva, popolata di tele turbinose passate attraverso l’informale di Burri, Tapies, Fautrier, e ridefinite con respiro evocativo di miti, leggende, tesori dello spirito ereditati da favolosi popoli mediterranei, in una sorta di scavo psicanalitico.

In stretta simbiosi con l’attività pittorica, un ruolo rilevante nell’opera complessiva dell’artista occupano le sculture di “Cavalli e cavalieri”, i Bassorilievi incisi di enigmatici geroglifici come pietre tombali di civiltà scomparse, gli Arieti sacrali, le Capre "omeriche", i Gatti simili a idoli egizi. Sculture animate da un incresparsi tormentato e prezioso delle superfici, velate da una patina arcaica.

Il linguaggio plastico elabora in una sintassi complessa tipologie remote, l’espressionistica irruenza dell’informale, inserti materici, la poesia raffinata della citazione. E nel Mausoleo di Teodorico a Ravenna, dove è in corso un’antologica del maestro, al centro dell’atarassico vuoto circolare un Totem leva verso l’alto la sua incantata canzone barbarica.

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