La giudice Paola Di Nicola: «Le donne violentate tradite in aula dai pregiudizi»

LUANA DE FRANCISCO
La violenza è un male congenito alla società e quella di genere, presente dentro le mura domestiche più di quanto si creda, finisce spesso per non essere neppure denunciata. Perché a fare paura, spesso, non sono soltanto gli uomini, ma anche i pregiudizi della società. Magistrati compresi. Ne sa qualcosa la giudice Paola Di Nicola, autrice del libro “La mia parola contro la sua” (HarperCollins), frutto di anni di studi su decine di sentenze e ospite, stasera, dell’incontro organizzato a San Daniele dall’associazione “Per la Costituzione”.
Perché tante donne scelgono di tacere le violenze subite?
«Perché non sono credute o la loro parola è sminuita dalla loro stessa famiglia o dai colleghi di lavoro, dal contesto sociale che potrebbe patire conseguenze dalla loro denuncia. Le donne temono le istituzioni che, se non preparate, interpretano la violenza come semplice lite familiare. Comprendo così tutto per sempre».
Quali sono le variabili che rischiano di condizionare l’esito di un processo?
«Il pregiudizio, che appartiene a ogni essere umano, è il più grave pericolo, perché inquina la lettura dei fatti. Se il possesso e il controllo di una donna da parte di un uomo che ne limita la libertà si traducono con la parola “gelosia”, come tutti i testimoni definiscono quella violenza, vuol dire che la fine del processo è già scritta. È un’assoluzione prima sociale e poi giudiziaria».
Come giudica il “codice rosso” in vigore da agosto?
«Ha dato una scossa a tutti gli operatori della giustizia imponendo tempi strettissimi, perché troppo pochi hanno ritenuto che la violenza contro le donne fosse una priorità. Comunque, se 1 donna su 3 subisce violenza e quindi se 1 uomo su 3 la compie, il problema non si può delegare ai tribunali, ma va affrontato nelle famiglie».
Quando una sentenza è palesemente sbilanciata?
«Nei casi in cui la violenza è confusa con la gelosia, la denuncia ritenuta strumentale solo perché c’è una separazione in corso in cui la donna reclama i diritti per sé e per i figli, l’affidamento dei bambini dato anche a un padre che ha massacrato di botte una moglie. Sono sentenze che in tutto il mondo scrivono queste cose perché appartengono alla nostra cultura da millenni».
Il giudice è professionalmente attrezzato per valutare al netto di pregiudizi?
«Lo è se ammette di essere vittima di stereotipi e pregiudizi, tanto da accettare di vederli e disinnescarli. Per farlo non bastano i codici, ci vuole capacità di lettura e coscienza del nostro limite umano e culturale».
Ogni femminicidio genera ondate di indignazione. Poi, però, ogni caso fa storia giudiziaria a sè. Cosa si sente di dire a chi, pure in un Paese civile come il nostro, non esita a evocare finanche il patibolo?
«Talvolta le nostre sentenze e gli argomenti che utilizziamo depotenziano e sminuiscono la violenza contro una donna. Giustificano quella violenza come atto di fragilità. E poiché lo facciamo “in nome del popolo italiano”, quel popolo ha tutto il diritto di non sentirsi in sintonia con quelle decisioni: si chiama democrazia». —
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