Il settimo giorno si riposò: il “Cristo della domenica” si conserva a Pordenone

Nella chiesa di Santa Maria si può ammirare l’unico affresco  dedicato all’esortazione al riposo prima del Concilio di Trento
Fin dal primo giorno dell’umanità, vige il divieto dal lavoro domenicale: dall’Antico Testamento (Sei giorni lavorerai e farai ogni lavoro; ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio: non farai alcun lavoro (..) Deuteronomio 5, 13-15) il riposo sabbatico oltre a consentire alla partecipazione del culto divino, diventa istituto di tutela del povero a difesa delle degenerazioni antisociali del lavoro umano.


Secondo le norme della chiesa cattolica, e da Costantino in poi, il precetto festivo impone che la domenica ci si astenga da ogni lavoro servile, ovvero da quelle opere un tempo assegnate agli schiavi quali arare, seminare, mietere, ma anche dalle attività artigiane, quali quelle del sarto, del calzolaio, del muratore, del vasaio e del fabbro, secondo una tradizione che assimila il sabato ebraico, il giorno settimo della Creazione che vide Dio riposarsi, al giorno della Resurrezione del Cristo.


A ricordarlo una volta per tutte è il “Cristo della Domenica”, una precisa iconografia medioevale raffigurante un povero Cristo martoriato dagli strumenti del lavoro che diventano strumenti di tortura e di oltraggio nei confronti della divinità, immagine cruenta poi abolita dal Concilio di Trento, ma ben radicata nella cultura di carattere popolare tanto da sopravvivere in tante chiese in particolare a ridosso dell’arco alpino centro-orientale, come nel caso del Cristo affrescato a San Pietro di Feletto vicino a Conegliano, uno dei più noti e studiati: quanto alla nostra regione, l’unico affresco superstite finora noto con il Cristo della Domenica (fine XIV sec.) si conserva a Pordenone, e venne riscoperto sotto spessi intonaci nel 1967 durante il restauro del ciclo decorativo di ascendenza vitalesca della chiesa di Santa Maria degli Angeli della Confraternita dei Battuti.


La figura frontale del Cristo si offre come un’icona alla meditazione, martoriato non solo dagli strumenti tradizionali della sua passione (arma Christi), ma anche, e una seconda volta, offeso dagli strumenti del lavoro quotidiano, nella cui descrizione il pittore indugia con dovizia di particolari, spaziando dagli oggetti a lama, agli strumenti delle varie arti, ai simboli del peccato e dei vizi, in parte rovinati: coltelli, mannaie, ruote, una cazzuola, un vaso, una treccia bionda. Si tratta di un linguaggio di certo comprensibile ai ceti borghesi che attraverso corporazioni e confraternite erano i principali committenti delle opere d’arte destinate alle chiese, e che compare in contemporanea, tra la fine del Trecento e la metà del Cinquecento, secondo i fondamentali studi compiuti da Bruna Sibille Sizia sul tema, con le nuove forme di predicazione e di devozione introdotte dagli ordini mendicanti.


Con l’emanazione, a seguito del Concilio di Trento, di più precise disposizioni in merito all’iconografia sacra, gran parte di queste raffigurazioni vennero ricoperte e presto dimenticate, anche se negli stessi Statuti di Pordenone del 1438 si ribadiva la proibizione di tenere aperte la domenica le botteghe delle varie arti e attività, con il dubbio poi che non sempre l’esortazione al riposo festivo si traducesse nella domenica, pensando all’osservanza del sabato diffusa nel mondo contadino friulano in virtù della tradizione alessandrina della chiesa Aquileia, ovvero delle strette relazioni tra la comunità ebraica alessandrina e i primi nuclei “guidaico-cristiani” aquileiesi, che si manifesta nel culto di “santa Sabide” pratica perseguita nel Friuli aquileiese dai “sabatari” pubblici ufficiali che comminavano multe ai contadini sorpresi a osservare il sabato, e fino al pieno XVIII secolo continuano ad arrivare rimproveri contro l’abitudine dei rustici di riposare il sabato anziché la domenica, come documentano gli studi di Gugliemo Biasutti.


Ma altri due esempi friulani assimilabili all’iconografia del Cristo della domenica si aggiungono a quell’affresco pordenonese finora ritenuto l’unico sul tema, grazie allo scalpello del più noto scultore rinascimentale lombardo attivo in Friuli, Giovanni Antonio Bassini detto il “Pilacorte”, che di certo non scolpì di domenica i due fonti battesimali per la Chiesa di San Lorenzo di Sedegliano, datato e firmato al 1503, e quello della vicina chiesa di Santa Giuliana di Coderno: il primo, impostato secondo la tipologia rinascimentale con vasca sorretta da un rocco di colonna, tra teste di puttini angolari, poggia su un cubo quadrato su una delle cui facce a bassorilievo sono scolpiti i profili di un bue e attrezzi agricoli, distribuiti e sparsi nello spazio con efficace effetto decorativo, dove spicca nel primo piano un aratro, accanto a un’ascia, a una zucca all’estrema sinistra, mentre poco sopra si profila un contenitore e in alto a sinistra un’accetta, e nel registro superiore a sinistra una forca è incisa accanto a un erpice in prospettiva.


Ma il significato di questa iconografia finora indicata dagli studiosi solo per la sua singolarità, si svela a pochi chilometri di distanza, esattamente a Coderno dove su due facce contigue del plinto di un’ altro fonte del Pilacorte, oggi impiegato come acquasantiera e collocato alla destra dell’ingresso, appaiono due diverse sequenze di strumenti da lavoro: in primo piano un giogo, due ruote che ci rimandano a un avantreno per aratri, un rastrello, due falci di diversa misura, una “massanghetta” per la potatura accanto a un’accetta, e ancora una volta il profilo in prospettiva di un erpice.


Sulla faccia contigua l’attrezzeria ci indica invece la fucina del fabbro e del maniscalco: mantice, incudine e martello in primo piano, due tipi di tenaglie, ferri da cavallo e da asino, chiodi e cunei, un secondo martello e altri strumenti non meglio identificati.


Tale repertorio è attraversato e scandito in verticale da sei incavi ovoidali tra loro raccordati da una sottile linea continua assimilabili a sei tacche, a contare, uno dopo l’altro, in fila, i giorni della settimana e del lavoro, e soprattutto a suggellare e chiarire l’insolita iconografia qui proposta da Pilacorte e per quel che ci consta per la prima volta, riferibile all’osservanza del precetto festivo, ovvero una versione aggiornata e rivista - ma sempre attuale - del cosiddetto, poverissimo, “Cristo della Domenica”.


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