Grande guerra, a Udine una mostra di cartoline e lettere dei prigionieri alle famiglie

UDINE. «Dunque miei genitori fate il possibile di aiutarmi in qualche modo a farmi venire a casa oppure mandate qualche pacco di farina o fagioli qualunque cosa da mangiare».
Così si legge in una cartolina inviata dal campo di prigionia durante la Grande Guerra, a firma di Angelo Tomasino di Povoletto e mai pervenuta alla sua famiglia, in quanto all’epoca probabilmente aveva lasciato la propria casa per la profuganza dopo la rotta di Caporetto.
È ormai noto che furono oltre centomila i prigionieri italiani morti nei campi austriaci e tedeschi per la fame e il freddo, e che le loro condizioni già durissime vennero acuite da una damnatio che colpì questi soldati sospettati da parte del Comando di tradimento, giungendo perfino a impedire la consegna di quei pochi viveri mandati dalle famiglie.
Una condizione resasi ancora più difficile durante l’invasione austro-tedesca per il mancato aiuto governativo e che migliorò solo, dopo la protesta delle stesse famiglie dei soldati, nell’agosto del 1918 con l’organizzazione del soccorso italiano.
Duecento tra lettere e cartoline di prigionieri friulani , scritte tra aprile e ottobre del 1917 da vari campi di prigionia, che parlano tutte di fame, di assenza di notizie e di lontananza, sono state personalmente acquistate sul mercato dal maestro Gaetano Vinciguerra, già docente a Pozzuolo del Friuli e attento animatore di ricerche sulle comunità civili friulane nella Grande Guerra.
Un atto di grande umanità e mecenatismo che ha permesso di salvarle dalla dispersione, animato soprattutto dall’intento di consegnarle, dopo cento anni, alle famiglie cui erano destinate, mentre le restanti, che saranno rimaste senza destinatario, saranno donate all’archivio di Stato, così come lo stesso Vinciguerra ha spiegato all’inaugurazione della mostra “Una città dentro la Guerra. Udine 1914-1918”.
Ed è proprio all’insegna di una memoria risarcita che si inquadra l’iniziativa in corso a Udine fino a febbraio 2019, che non è solo un’esposizione di documenti, fotografie, reperti, video, ma soprattutto un progetto in quanto mette al centro della comunità cittadina il Museo Etnografico del Friuli, con la curatela di Tiziana Ribezzi, facendone un’istituzione culturale viva e dialogante col territorio.
E la città in questo contesto è chiamata non solo a scoprire un pezzo della propria storia, ma anche a collaborare in prima persona a delineare l’identità sociale di una comunità messa a durissima prova dalla guerra, dall’invasione, dalla profuganza.
Udine, capitale della guerra, a ridosso del fronte e sede del Comando Supremo, raddoppia nel 1914-1915 i suoi abitanti (oltre 80 mila), viene militarizzata, con caserme, ospedali, depositi, e presto ai bombardamenti (il 27 agosto 1917 scoppia la polveriera di Sant’Osvaldo) si aggiungono la fame, il tifo e il colera e soprattutto l’invasione austro-tedesca, mentre 30 mila udinesi lasciano la città.
Ma Udine è anche una città che sotto l’occupazione va organizzandosi in un comitato cercando di mediare con le esigenze militari, di limitare i danni, i saccheggi, le violenze, la distruzione delle fabbriche.
Si viene così a delineare il profilo di una città inedita, e a raccontarla sono chiamati gli stessi cittadini segnalando storie e documenti legati ai luoghi, alla storia della propria famiglia, sotto lo stimolo anche di una ricerca sollecitata dall’attivissimo istituto Bonaldo Stringher, che ha la sua sede poco lontano dal museo, ideatore di una sorta di mappa “interattiva” di Udine, capitale della Guerra, che bene conclude, senza celebrare ma aprendo nuove prospettive storiche, un centenario partito da noi decisamente sottotono.
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