Gorizia, Trieste, Udine: tanti i deportati tra gli 8.000 dall'Italia

Trieste, 29 marzo 1944: il vescovo Antonio Santin denuncia al prefetto Bruno Coceani una barbara retata di ammalati e vecchi ebrei compiuta il giorno prima dai tedeschi in luoghi di cura e di dolore della città: «Le scene che si sono svolte non sembrano neppure possibili, la città tutta ne è nauseata», scrive indignato monsignor Santin, invocando soluzioni che non arriveranno.
Anche il barone ebreo udinese Elio Morpurgo, senatore del Regno e sindaco di Udine,rientra nel novero di quelle vittime: ottantacinquenne, gravemente malato, tre giorni prima è stato infatti snidato nell’ospedale del capoluogo friulano dai nazisti, che lo hanno trascinato via in vestaglia sino a San Sabba.
Da lì, il 29 marzo, viene fatto salire su un convoglio per Auschwitz: muore però nel tragitto invocando il nome del figlio Enrico – che ne ricercherà poi invano il corpo per tutta la vita – e viene scaricato presso Salisburgo (solo recenti ricerche da me compiute hanno consentito di capire dove sia finita la salma, che comunque non è recuperabile: per questo la sua tomba, a Udine, resta vuota).
Si tratta, come osservò Pietro Pascoli, di «un episodio che compendia in sé tutto l’orrore scaturito dall’odio di razza nel processo di sistematica liquidazione degli ebrei instaurato dal nazismo in Europa».
Perciò può essere proposto a nome delle tante vittime della Shoah nella nostra regione: basti dire che da Trieste fu inviato ai campi della morte intorno al dieci per cento dei circa ottomila ebrei deportati dall’Italia; che la comunità di Gorizia fu annientata; che altre decine di vittime fra Udine e Pordenone furono catturate e destinate alla morte...
La legge 20 luglio 2000 n. 211 ha riconosciuto in Italia il 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz (nel 1945), come giorno deputato a «conservare la memoria di un tragico e oscuro periodo della storia nel nostro Paese e in Europa, affinché simili eventi non possano mai più accadere».
Ricordiamo dunque lo sterminio di sei milioni di ebrei (circa un decimo dell’inaudito numero di morti della Seconda guerra mondiale), le leggi razziali, le persecuzioni e tutti gli italiani deportati, imprigionati, uccisi.
Ma anche tutti coloro che hanno protetto e salvato i perseguitati: quel «latte dell’umana bontà» di cui ha scritto Giacomo Debenedetti riferendosi a quanti aiutarono le vittime durante la retata nazista nel Ghetto di Roma (16 ottobre 1943). È con loro che ci possiamo consolare nei momenti di sfiducia verso i nostri simili.
Ciò di cui si ha più bisogno, tuttavia, è lo studio di quel genocidio nel contesto del “secolo dei genocidi” (Bernard Bruneteau).
Perciò – seguendo Georges Bensoussan – bisogna che al dovere della memoria e alle tante celebrazioni concluse con un “mai più” pericolosamente vago e sospeso si affianchi il dovere del rigore storico: di per sé, infatti, «il ricordo non protegge da nulla». E se oggi la Shoah è «talmente commemorata da generare insofferenza», forse è perché «rappresenta la parte indicibile e vergognosa della memoria europea»: non fu infatti un incidente di percorso nella. marcia della Ragione e del Progresso, né l’effetto di forze demoniache estranee alla nostra civiltà, bensì un fenomeno radicato nel lungo periodo e nel cuore della modernità.
Primo Levi, nella poesia “Nachtwache” (“guardia di notte”, termine tecnico del Lager) citava il profeta Isaia per chiedere: «Sentinella, a che punto è la notte?».
La notte è dapprima evocata, poi ossessivamente presente in “Se questo è un uomo” («Fu una notte tale, che si conobbe che occhi umani non avrebbero dovuto assistervi e sopravvivere … Senza sapere come, mi trovai caricato su di un autocarro che partì nella notte a tutta velocità»): è la notte dell’umanità, il punto più basso dell’inferno creato dagli uomini, di cui ha parlato come pochi altri Elie Wiesel (“La notte”): «Mai dimenticherò quella notte, la prima notte nel campo, che ha fatto della mia vita una lunga notte…».
Ma è per tutti che quella notte non è mai completamente passata.
L’autocarro procede veloce, l’inferno non ha chiuso i battenti: «Ho sentito il gufo ripetere / La sua concava nota presaga…», scriveva ancora Primo Levi pochi anni prima di morire.
È vitale allora che – come ha auspicato Bruno Segre – un serio impegno pedagogico dia vita a strategie educative che offrano «il senso concreto di un legame tra la vicenda dello sterminio nazista e situazioni di violenza, di offesa ai diritti umani, di eccidi di massa di oggi, pur con tutte le differenze rispetto alla Shoah».
Occorre insomma una memoria dinamica, che sia interrogazione analitica del presente in vista di un futuro migliore. Per tutelare la democrazia, combattere il razzismo, difendere i diritti umani.
«Nonostante tutto, io continuo a credere nell’intima bontà dell’uomo», scrisse Anna Frank prima di subire una tragica disillusione: sta a tutti noi non deluderla di nuovo.
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