Giorno della Memoria: un giovane su tre non sa cos’è la Shoah

Lo conferma un sondaggio Ipsos realizzato per l’Aned «Riscontri inquietanti della scarsa conoscenza storica»

UDINE. Perchè celebrare il Giorno della memoria? Anche perché quasi uno studente su tre non sa che cosa sia la Shoah. In quel trenta per cento di ragazzi c’è chi non ne ha mai sentito parlare, chi non sa bene cosa significhi e la maggior parte che pensa di conoscere il termine, ma poi ne dà una definizione sbagliata.

Il 39 per cento dei ragazzi intervistati la ritiene la più grande tragedia dell’umanità, ma per il 57 per cento ce ne sono state anche altre di cui si parla poco, per l’un per cento è un episodio sopravvalutato e per il 3 è da dimostrare che ci siano state davvero le camere a gas.

Ma se per la maggior parte degli studenti ricordare è importante affinché la storia non si ripeta e rimanga memoria di quanto accaduto, il 40 per cento dei ragazzi che valuta superfluo parlare di campi di concentramento ritiene che «oggi ci siano problemi ben più attuali e importanti», per il 32 per cento «è un avvenimento che anche se gravissimo è ormai molto lontano nel tempo», mentre per il 26 per cento «se ne è già parlato fin troppo in passato».

Un 11 per cento azzarda pure la risposta che «non è neanche detto che sia davvero successo quello che è raccontato».

Sono solo alcuni dei dati presentati martedì durante l’incontro «70 anni fa: il Nordest e i sopravvissuti alla Shoah: una bella storia umana dimenticata (1945-1948)» dal presidente dell’Associazione nazionale ex-deportati nei campi nazisti Marco Balestra, risultati di un sondaggio realizzato da Ipsos per conto dell’associazione che ha preso in esame – a fine 2016 – un campione rappresentativo di 750 giovani di età compresa tra i 16 e i 25 anni.

Di questi 150 sono giovani residenti nei Comuni in cui si trova l’Aned: Udine, Trieste, Sesto San Giovanni, Firenze, Prato, Empoli, Savona, Legnano e Torino.

Ma se il termine Shoah è conosciuto dalla maggior parte dei giovani studenti, non lo sono le deportazioni in Italia, che rivelano invece ampie lacune nella preparazione storica dei ragazzi coinvolti, i quali vedono comunque nella scuola il luogo principale in cui apprendere e approfondire le conoscenze.

Nonostante circa l’80 per cento dichiari di conoscere abbastanza bene la storia del regime fascista, l’opinione più comune è che, dopo gli ebrei, il gruppo più deportato dall’Italia sia stato quello degli omosessuali, quindi Rom e Sinti.

Decisamente sottostimate, invece, le deportazioni dei partigiani e degli antifascisti, e tra questi in particolare quella degli operai che, al contrario, hanno rappresentato la grande maggioranza della deportazione italiana. Segnali che denotano, sottolinea il presidente udinese di Aned, «il riscontro inquietante della scarsa conoscenza storica dei giovani, alla luce anche delle risposte fornite in merito al regime fascista».

Vivere in un Paese democratico è fondamentale, non si discute, ma se anche più della metà dei giovani si dichiara antifascista (55 per cento), il regime non viene denigrato in toto: due terzi dei giovani pensa sia stata una dittatura da condannare in parte perché ha portato anche benefici al Paese.

E se memoria e oblio rappresentano due concetti sui quali le associazioni si battono da tempo, con il timore che lo scorrere del tempo affievolisca il ricordo, proprio le risposte di questi giovani evidenziano la necessità di «un impegno sempre maggiore da parte nostra – riflette il presidente Aned –, ma anche delle istituzioni e della scuola, per creare cittadini consapevoli, che non dimenticano i valori umani. L’oblio è la morte della democrazia».

Sull’utilità e sulla necessità di continuare a promuovere attività e incontri in occorrenza del 27 gennaio è intervenuto anche l’assessore comunale alla Cultura, Federico Pirone. «A che cosa serve ricordare? Il ricordo è stato in grado di attenuare l’odio e la rabbia che cova nella nostra contemporaneità?«, si chiede l’assessore, che invita a porsi in termini obiettivi e laici nel restituire risposta. Sì, serve. Serve in termini di giustizia «che dobbiamo alle persone che morirono – aggiunge – e alle loro famiglie, alla popolazione ebraica che fu vittima delle persecuzioni». Serve affinché l’oblio non spenga mai la più piccola luce di speranza.

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