Gitai racconta Rabin Il premier della pace ucciso da un fanatico

La pellicola racconta l’assassinio del leader israeliano Il regista: «Così cambiò la storia». Napolitano alla prima
Di Michele Gottardi

VENEZIA. Il 4 novembre 1995 il premier israeliano Yitzhak Rabin veniva assassinato da un fanatico dell’ultradestra, Yigal Amir. Quell’omicidio politico, all’indomani degli accordi di Oslo, pose fine al processo di pace con i palestinesi. A distanza di vent’anni Amos Gitai torna su quella tragedia, ricostruendone i contorni sfumati, indagando anche sulle smagliature del sistema di sicurezza, ma soprattutto su un odio diffuso negli ambienti della destra, che armò la mano di Yigal Amir, a cominciare dai rabbini che lanciarono su di lui la maledizione di Pulsa Danura: Rabin venne spesso affrontato da estremisti che gli davano del traditore.

“Rabin, the Last Day” è un film complesso, appassionato e rigoroso. Per la prima, ieri sera in Sala Grande al Lido è arrivato il presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano, accompagnato dalla signora Clio. Ricevuto dal presidente della Biennale Paolo Baratta, al suo ingresso in sala è stato accolto con un lunghissimo applauso. Gitai ha stretto la mano del presidente emerito; tra i due, un breve scambio di parole.

Quindi, il film. Nel quale, alternando spezzoni d’epoca, telegiornali e fiction, Gitai segue le tracce della commissione Shamgar, che fece luce su eventuali complotti; li escluse, ma arrivò a una conclusione più pesante, sostenendo che Israele aveva cambiato la sua originaria natura democratica. E le parole di Gitai sono altrettanto forti, a cominciare dal minuto di raccoglimento che ha fatto osservare in sala stampa per la morte della palestinese Reham Dewabsheh - nell’attentato dei due estremisti ebraici in cui sono morti anche il figlio di 18 mesi e il marito - e le vittime del conflitto. Al di là delle diverse posizioni, l’opera di Rabin fu quella di chi mise in campo il cuore per risolvere il conflitto, convinto com’era che l’unica soluzione fosse «rischiare la pace». La sua morte venne pianta su entrambi i lati del Giordano e ai suoi funerali parteciparono tutti i leader arabi.

Cosa resta oggi di quella breve parentesi di speranza? «Il destino del paese è cambiato con quelle tre pallottole. Dobbiamo preservare la memoria di un gesto che non è stato sentimentale, ma di odio, l’opposto di quanto auspicava Rabin, che sosteneva l’impossibilità di un ritiro unilaterale, da Gaza e dalla Cisgiordania. Rabin ha ribadito come Israele fosse nato da un progetto politico, preservare gli ebrei dalle persecuzioni, ma anche trovare un modo per rispettare gli altri e Israele è anche la terra dei palestinesi. I progetti religiosi portano solo alla megalomania e al delirio».

Nel film non si dice che fine fa l’attentatore, che fu condannato all’ergastolo. «La società israeliana è stata pietosa con lui, gli ha fatto anche fare un figlio e tra cinque anni lo rilascerà. Pericoloso, anche se lui è stato solo il fucile». Il regista ha escluso il rischio di una guerra civile, ma ha anche confermato il difficile momento del Paese: «Il rischio oggi è tornare nel ghetto. Israele come l’Italia è schizofrenico. Noi confidiamo negli altri e questo è il ruolo del cinema e dell’arte. Per questo il film si conclude con i manifesti di Netanyahu di oggi».

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