Praforte, quel borgo sgomberato per i “giochi di guerra”

Con la scusa delle frane, negli anni ’60 i residenti dovettero lasciare la borgata. Oggi il poligono del Ciaurlec è chiuso, ma il paese è rimasto disabitato

CASTELNOVO DEL FRIULI. In tempo di “guerra fredda” i poligoni militari avevano priorità assoluta: diritto di vita o di morte su tutto. L’ambiente circostante doveva adeguarsi a logiche di forza maggiore dettate dai sistemi di difesa.

Così capitò agli sventurati abitanti di Praforte, una borgata fantasma che resiste nonostante tutto abbarbicata sulle pendici orientali del monte Ciaurlec, a 350 metri d’altezza, in comune di Castelnovo del Friuli. A tutt’oggi è un luogo morto.

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Tolmezzo 14 Marzo 2017 betania protesta Copyright Petrussi Foto Press Turco Massimo

E’ presidiato da un paio di asinelli, qualche pecora e un buon numero di galline. Non c’è altra anima viva. Lì il tempo si fermò qualche decennio fa. Mantiene però un’impronta architettonica che resiste all’avanzata prepotente del bosco: gli edifici di sasso, i ballatoi in legno, i terrazzamenti costruiti ad arte, le mulattiere acciottolate, i muretti a secco, la chiesetta di San Vincenzo con accanto un ordinato cimitero.

Nei periodi migliori sprigionava l’energia di un’orgogliosa identità. Ormai il tempo ha cancellato anche gli ultimi bollori di rabbia umana. I ricordi sono sbiaditi. Che cosa accadde di tanto grave? La vita si interruppe attorno alla metà degli Anni 60 a seguito di un ordine di sgombero.

Le poche famiglie rimaste non riuscirono a fronteggiare la rigida legge delle carte bollate. Issarono bandiera bianca e se ne andarono. Non c’era nulla da fare al cospetto di un atto amministrativo che dichiarava uno stato di grave pericolo.

Praforte, il poligono dimenticato dopo la guerra

La burocrazia evidenziava la presenza di una frana che minacciava l’incolumità delle persone. I sopralluoghi si fecero sempre più frequenti, anche se nessuno voleva credere a rischi particolarmente gravi.

Per carità, il territorio comunale è da tempi remoti vulnerabile sotto il profilo idrogeologico. Aree fragili. Nessun amministratore era disposto ad assumersi un carico eccessivo di responsabilità.

D’altra parte, la borgata non contava più nulla. Non aveva un peso strategico. Era piena di problemi, che magari davano fastidio. Per esempio, era già in atto l’esodo dalle condizioni di vita ritenute assai difficili. Agli inizi del Novecento i dati anagrafici registravano circa 200 anime, che si accontentavano di vivere con quel poco che la montagna offriva a loro, ingegnandosi a fare un po’ di tutto.

Campavano con un po’ di agricoltura e con quanto potevano ricavare dai piccoli allevamenti. I prodotti risparmiati dalle necessità dell’autoconsumo venivano piazzati dalle rivindicules cjastelanes nei mercati sparsi nei centri della Pedemontana.

Le vie di comunicazione mettevano gli abitanti in contatto da una parte con Travesio e, dall’altra, con Almadis (poco distante da Paludea che è il capoluogo di Castelnovo del Friuli), dove la latteria sociale, struttura di primaria importanza, era gestita proprio dal casaro che scendeva da Praforte.

Le persone più ingegnose mantennero viva la tradizione degli scalpellini, molto diffusa nell’intero territorio. I più bravi abbandonarono il piccolo borgo natio per emigrare in giro per il mondo. Così, la grande fuga assottigliò inesorabilmente le presenze nella borgata, lasciando in loco chi proprio non voleva saperne di recidere le radici, soprattutto per motivi affettivi.

Nel dopoguerra arrivò anche la luce elettrica, ma non cambiò più di tanto la vita dei residenti. Ormai dell’antico paesino era rimasto ben poco, non più di una quindicina di famiglie. Di per sé era un nucleo autonomo, che non chiedeva mai nulla a nessuno.

Che non osò mai lamentarsi di nulla se non, di tanto in tanto, dei pericoli reali, quelli rappresentati da esplosioni e spari del poligono, non certo da quella maledetta frana citata nell’ordinanza di sgombero.

I rischi di smottamento vennero ben presto archiviati nel libro della Storia tra i “pretesti” orchestrati per sbarazzarsi di un’esigua presenza ingombrante di persone, soprattutto anziane, particolarmente costose in termini di servizi che il Comune doveva erogare.

Ecco la vera questione: lassù si sviluppava un’intensa attività militare. Le autorità non ammettevano contestazioni. Il Ciaurlec era infatti uno dei poligoni più trafficati d’Italia, un’area strategica ben inserita nella desolata landa del confine orientale. Nel periodo della “guerra fredda” i cannoneggiamenti erano martellanti, prolungati e pericolosi.

Si assisteva a un viavai di mezzi militari. I residenti avevano paura. «Spesso qualche ordigno scoppiava proprio vicino alle abitazioni, provocando le proteste della gente» ricorda ancora Renato Cozzi, che di Praforte (e dell’intera Val Cosa) è un testimone fondamentale, uno dei pochi rimasti a raccontare storie di generazioni di montanari.

«Mi ricordo di un maiale ucciso dalle schegge di un ordigno - rivela fra tanti aneddoti - e di altri incidenti accaduti a ridosso delle case. L’area era troppo esposta alle esercitazioni». Dove la natura non infierì, lì ci pensarono gli uomini a scacciare altri uomini.

Gli eventi del passato esaminati con gli occhi di oggi ci fanno capire che lo “sfratto coatto” di una micro-comunità fu dettato più da logiche militari che da ragioni legate ai capricci del terreno. Così, quando la resistenza dei pochi abitanti della borgata si affievolì, e la rabbia si trasformò in rassegnazione, scoccò implacabile l’operazione dello sgombero.

Gli sfollati furono sistemati provvisoriamente a Travesio, poi trapiantati a Paludea, in un agglomerato di case a schiera vicino al municipio, un “borgo artificiale” senz’anima denominato Praforte Nuovo, costruito con i soldi della Regione.

Nessuno è più ritornato a vivere stabilmente nelle vecchie dimore: forse qualche presenza si rileva d’estate, nulla di più di una toccata e fuga, giusto per seguire l’orto e qualche piccolo allevamento. Poca roba.

Alla fine, l’unica a non muoversi fu la frana che, secondo gli autori dell’ordinanza di sgombero, si sarebbe dovuta manifestare come un terribile Orcolat in quei luoghi fragili. Invece, nonostante gli scossoni provocati dalle cannonate durante gli addestramenti militari, non si verificò nulla di sconvolgente.

«Al limite - ricordano alcune testimonianze - gli smottamenti avrebbero potuto interessare qualche casa sul costone del monte, non certo l’intera borgata. Nemmeno il disastroso terremoto del 1976 provocò danni».

La memoria di Praforte è ormai sbiadita dal tempo, una fiammella di candela che si sta spegnendo. Non essendoci più le ultime “sentinelle”, gli spazi sono aggrediti dall’avanzare della boscaglia. Arbusti e rampicanti coprono progressivamente le case più diroccate, tant’è che alcune pareti di sassi sembrano reggersi soltanto per i cespi d’edera che le avvinghiano.

Intanto, anche il poligono ha cessato le attività. Gli unici ricordi sono segnati da un osservatorio militare, in cemento armato, lasciato in condizioni pietose, e da una vegetazione che fa tremendamente fatica a riprendersi. Nella borgata fantasma domina il silenzio.

In un’abitazione fa triste mostra di sé un cartello appeso a un palo in un punto strategico. Chiude una storia assai tormentata: “Non c’è niente da rubare, avete già rubato tutto”.

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