Il Made in Friuli sbranato da Ikea

Manca una rete distributiva, ci sono evidenti difficoltà a utilizzare le tecniche di marketing
Bumbaca Gorizia Apertura Ipercoop Gradisca
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UDINE. Alla catena del nostro sistema produttivo è mancato un anello fondamentale, quello di una solida rete distributiva. È importante il lavoro nelle aziende. Lo è altrettanto il marchio di fabbrica, segno dell’ingegno e della creatività. Ma se non si oltrepassano i cancelli degli stabilimenti, tanti sforzi sono inutili. Bisogna arrivare nei siti di vendita nei tempi giusti e in condizioni competitive. Invece, l’arte del commercio è stata smarrita, in particolare nel Friuli Venezia Giulia, che è terra fertile di produzione, ma con evidenti difficoltà a utilizzare le tecniche di marketing. Fino a quando il mercato tirava, le vendite giravano da sole in piazze poco più che locali. Tutt’al più l’imprenditore si appoggiava a qualche missione organizzata dalle Camere di commercio, o alle piccole rassegne fieristiche. Progressivamente, anche questi enti si sono lasciati sopraffare dal malessere italiano: sono stati imbottiti di troppa politica, diventando luoghi di contrattazione di posti o, meglio, dei poltronifici. E oggi, incapaci di rinnovarsi, sono inseriti nell’elenco dei vecchi strumenti da rottamare. Fiere e Camere di commercio sono due strutture in profonda crisi di identità.

I mercati globali hanno invece bisogno di tutt’altre strategie distributive e di dimensioni aziendali più solide. Il “piccolo è bello” non è più il valore aggiunto di un territorio. Anzi, in molti casi è diventato una palla al piede. Fenomeni come Ikea hanno alzato decisamente il tiro della competitività. Hanno sbaragliato ogni resistenza anche nella nostra regione.

La forza multinazionale di Ikea ha imposto le sue condizioni, infliggendo il colpo di grazia a distretti industriali ormai in crisi, come quelli del mobile (zona Liventina) e della sedia (Manzanese). Anche queste ultime tipologie di aggregazioni aziendali fittizie, ingessate in sovrastrutture manovrate da logiche politiche, sono saltate in aria, perché non sono riuscite a proporre neanche un semplice marchio da sfruttare per la commercializzazione. Funzionano ormai con capacità dimezzate rispetto ai tempi d’oro. I distretti sono aree fantasma, con capannoni presidiati dall’erba alta, segno di un malinconico abbandono. Tracce inequivocabili di una crisi che non passa. Sono rimaste a galla le imprese che hanno investito caparbiamente sull’innovazione. Che hanno messo i capitali nel “core business”, anziché nasconderli all'estero. E resiste qualche altra azienda che ha accettato di entrare nell’orbita Ikea, snaturando però l’identità di produttore autonomo, per spostarsi verso il semilavorato. Le condizioni sono ovviamente dettate dalla multinazionale svedese. I margini di guadagno sono ridotti al lumicino. Prendere o lasciare.

Il Friuli ha pagato duramente (e paga ancora) l’incapacità di sviluppare reti efficienti di distribuzione, per proporre sui mercati un’offerta integrata di distretto, per esempio tutta la gamma dell’arredamento sotto una stessa bandiera. I nostri imprenditori, cocciutamente individualisti (magari belli e creativi, ma nanerottoli), si sono fatti “mangiare” da Ikea, in casa propria. Così oggi, alcuni di loro, lavorano sotto padrone. La multinazionale svedese è lo specchio della crisi del modello friulano di distretto. Mette in risalto l'eccessivo individualismo aziendale, la scarsa flessibilità, la mancanza di dialogo, l'incapacità di adottare strategie efficaci di vendita. Oggi rappresenta una sfida permanente dentro il nostro sistema produttivo.

Eppure, la nostra non sarebbe neanche una terra vergine, in fatto di commercializzazione. Ci sono state esperienze all’avanguardia. Alcuni aneddoti tornano alla mente, proprio in questo periodo in cui si rievocano i sessant’anni della televisione. Il 3 gennaio 1954 andò in onda la prima trasmissione, ovviamente per pochi danarosi spettatori. Piano piano i bar si riempirono, poi l’oggetto del desiderio entrò nelle case degli italiani. All’appuntamento non poteva mancare il “re degli elettrodomestici”. L’imprenditore pordenonese, Lino Zanussi, comprese la portata rivoluzionaria del fenomeno, soprattutto per l’impatto economico che poteva esercitare sullo sviluppo della sua azienda. Così diede l’incarico ai fidati collaboratori di presentargli dei progetti per la realizzazione di alcuni modelli di televisore. Davanti ai primi schizzi esclamò soddisfatto: «Abbiamo 10 mila rivenditori. Volete che non siano capaci di vendere una decina di televisori, a testa, in un anno? Sono sicuro di sì. In questo modo sarà raggiunto il lotto minimo indispensabile al lancio della nuova produzione entro le compatibilità di bilancio». E il marchio Rex ampliò la gamma degli elettrodomestici: i televisori, dopo le cucine, i frigoriferi e le lavatrici. Fu un vero successo per il “made in Friuli”.

Praticamente, le strategie dell’imprenditore pordenonese partivano proprio dalla commercializzazione, considerata un anello importante della catena: dalla fabbrica al consumatore. E il marchio-forte garantiva un legame indissolubile tra azienda e cliente. Lino Zanussi puntò quindi a sfruttare a pieno regime le capacità della rete distributiva, un principio che fu via via dimenticato. Il sistema produttivo perse un’opportunità fondamentale per “stare sui mercati”. E oggi paga pegno, anche se qualcosa si sta muovendo per recuperare la via smarrita. Il rilancio potrà avvenire attraverso processi di aggregazione e di integrazione di imprese. E’ questo il futuro dei distretti, disperatamente alla ricerca di una nuova identità. E la Regione dovrà tenerne conto nelle sue strategie di politica industriale.

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