Commercio in centro Le insegne griffate rimpiazzano i marchi della tradizione

Boranga è solo l’ultima grande dinastia pordenonese a lasciare Viaggio tra i pochi negozi storici di abbigliamento che resistono 

LA CITTà CHE CAMBIA



«Ormai, gli “storici” si contano sulle dita di una mano». Lentamente il centro città cambia volto e le famiglie di commercianti di lunga tradizione nel comparto abbigliamento cedono il passo alle grandi marche che danno il nome alle insegne.

L’ultimo stop, in ordine di tempo, è quello di Boranga. «Viviamo un’epoca di grandi trasformazioni e di progresso continuo – scrive Mario Boranga su Facebook – e il mestiere è diventato estremamente difficile. Il senso di responsabilità e l’etica lavorativa rendono necessario prendere questa difficile decisione in un periodo storico in cui ogni anno i margini divengono più esigui, le problematiche più complesse, gli adempimenti burocratici più pesanti, la concorrenza più subdola e meschina. Oggi se veramente si vuole tutelare il commercio è più serio pensare ad una regolamentazione seria delle vendite online e degli outlet, vere concorrenze sleali senza regole. Continuare vorrebbe dire rischiare di trovarci in grave difficoltà nel giro di pochi anni: meglio invece chiudere bene una storia così bella».

Boranga è solo l’ultimo grande nome – pordenonese o no – ad abbassare la serranda. Molti ricorderanno i Magazzini del lavoratore di piazza Duca d’Aosta con i suoi punti di riferimento Sara Rosset e Alvaro Piccinin, piuttosto che la Standa di via Marconi (e Contrada prima), ma l’elenco dagli anni Cinquanta è ben lungo e certamente si dimentica più di qualcuno.

In largo San Giovanni, poco distante dallo storico negozio Rex, c’era quello dei fratelli Spessotto, ex allievi Don Bosco e volontari della San Vincenzo, che per indole solidale, “facevano credito” o rateizzavano ai clienti che non erano in grado di pagare subito.

A inizio corso Garibaldi la corte prende il nome dalle sorelle Torres che avevano un negozio di abbigliamento ricercato. La gente “bene” aveva il suo punto di riferimento ne La Bottega di Carlo Furlan, in piazza Cavour: era il negozio più rinomato, capi di altissima qualità e, di conseguenza, il più caro.

Sembrerà “preistoria” quanto c’era in Contrada Maggiore, ovvero “Ai Combattenti” della famiglia Valerio (all’altezza del vicolo del Teston) e Il paradiso della seta, Populin e I tassi. «Negozi i cui nomi oggi risuonerebbero strani, ma “figli dei tempi” e delle famoglie che li gestivano – ricorda il sindaco emerito Alvaro Cardin –. Il centro, inoltre, era gremito di sarti e sarte, che confezionavano vestiti su misura».

Oggi tengono alta la bandiera della pordenonesità un pugno di commercianti come Mario Romor (via Bertossi, dal 1927), Silvio Gaspardo (corso Garibaldi, dal 1946), Renzo Venier (Erre Moda), Luigi Romanin (all’ingrosso e al dettaglio, stesso corso), Giancarlo Pavan (Ulysses) in Contrada Maggiore.

E poi gli altri negozi di punta del centro, di ieri e di oggi: Maglia Moda di Franca e Gianni Manfrin, gli abiti da sposa di Erminio ed Elide Giacomini, Luisa Spagnolli, i fratelli Camillo ed Annamaria Amadio, la boutique Pagotto, Basevi (oggi libreria), Pitassi abbigliamento, Polese. «Sino agli anni Novanta – dice Mario Romor – abbiamo vissuto il boom economico e comunque l’abbigliamento era prioritario, un “biglietto da visita” della persona. Oggi la gente spende in altro: telefonino da 600 euro l’anno e viaggi, per esempio. Liberalizzazione delle licenze, internet, outlet e centri commerciali, dove la gente viene portata dall’aeroporto con la correra, non hanno aiutato chi faceva questo mestiere per tradizione e quindi lo viveva e lo respirava già da bambino».

“È finita un’epoca”, è il titolo del libro di Silvio Gaspardo, sulla vita da commerciante in centro: «Oggi scriverei che l’epoca è precipitata. Ho visto passare tanti colleghi: alcuni hanno fatto i soldi, molti hanno vissuto, una parte è andata male. Ho cominciato a lavorare nel 1972: ancora oggi apro e chiudo quella porta costruita nel 1951. Pochi possono dire altrettanto. Purtroppo». —



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