Addio a Da Col, nell’equipe del primo trapianto di cuore in Friuli: era risultato positivo al Covid

Aveva 71 anni. Fu tra i collaboratori di Puricelli per lo storico intervento del 1985

UDINE. È morto la sera di Capodanno, a 71 anni, il dottor Paolo Da Col. Originario di Pieve di Cadore, ha lavorato per quasi vent’anni tra i Settanta e i Novanta nella cardiochirurgia dell’ospedale Santa Maria della Misericordia, componente della straordinaria equipe medica che, guidata dal dottor Cesare Puricelli, eseguì il 23 novembre 1985 il secondo trapianto di cuore in Italia, in ritardo di un paio di giorni rispetto al team padovano guidato dal professor Vincenzo Gallucci.

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Da Col era ricoverato all’ospedale di Vittorio Veneto da alcuni giorni per il Covid-19, come conferma la sorella Giovanna, che assieme ad Amit Rana e Sanu Magar ha assistito il dottore negli anni difficili in cui il morbo di Parkinson - che nel 1998 l’aveva costretto a lasciare il camice e Udine - si è fatto strada, rendendo ardua l’esistenza a un professionista che aveva fatto dell’incommensurabile precisione il proprio punto di forza. Figlio di Italo Da Col, direttore amministrativo della Zoppas, e di Maria Strocchi, Paolo si diploma al liceo classico di Padova prima di laurearsi brillantemente in Medicina nell’università della città euganea.


Dopo le prime esperienze a Massa Carrara con il professor Azzolina, considerato il primo cardiochirurgo al mondo, Da Col approda a Udine. E qui, per ricordarlo, è doveroso lasciare la parola al professor Puricelli, amico e a lungo direttore del chirurgo veneto nella cardiochirurgia dell’ospedale friulano.

«All’inizio degli anni Ottanta, quando non avevo ancora la direzione dell’Unità di chirurgia cardiotoracica, ma ero solo aiuto del primario Meriggi, eravamo in crisi con la chirurgia di rivascolarizzazione miocardica, che allora si realizzava con la confezione dei cosiddetti “bypass aortocoronarici”, che consistevano in segmenti di vena, di solito prelevati dagli arti inferiori del paziente (vena safena), abboccati sull’aorta e sui rami coronarici ostruiti, ovviamente aldilà dell’ostruzione», racconta Puricelli.


«Un chirurgo della nostra squadra, dotato di ottima manualità, e anche di un particolare carisma, era stato incaricato di questa chirurgia, e dopo un’esperienza maturata in Olanda, aveva adottato la tecnica di usare un solo segmento di vena, che abboccava in sequenza ad ognuno dei rami coronarici malati. Naturalmente, risparmio di tempo, cosa importante dato che l’operazione si eseguiva in circolazione extracorporea. La tecnica era brillante, i successi erano clamorosi, se tutto andava bene, ma bastava che un abboccamento non funzionasse, e allora il paziente restava ammalato come prima, o addirittura moriva. Il chirurgo carismatico venne progressivamente sfiduciato, e toccò a me e a Paolo l’andare a imparare una tecnica più valida».

Nasce così una delle esperienze formative che più hanno segnato la carriera del dottor Da Col, come confermato anche dalla sorella: «Venne scelta l’Unità di Cardiochirurgia del Klinikum Grosshadern, a Monaco di Baviera, dove io avevo un amico – riannoda ancora il nastro dei ricordi Puricelli –, il professor Bernhard Kemkes, ottimo chirurgo anche coronarico. Passammo così tre mesi, ospiti dell’pspedale, ciascuno con la sua camera e con la possibilità di allenarci confezionando abboccamenti su tubicini di plastica che simulavano molto bene le coronarie. Mentre la mia camera era tenuta diciamo normalmente, quella di Paolo brillava per l’ordine perfetto. Al ritorno a Udine, fu subito evidente che Paolo era più veloce di me nell’operare le coronarie. Andò avanti per alcuni anni, ma quando lasciai l’Unità per andare in pensione, aveva smesso. Cominciavano i primi segni del morbo, che gli toglieva il controllo dei movimenti, e poi i sintomi neurologici. Una fine paradossale. Il colpo di grazia glielo ha dato il coronavirus».
 

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