Zoff e le malattie del calcio: «Sono cose di questo Paese»

Lunga intervista su L’Espresso in edicola oggi dopo il caso Agnelli-’Ndrangheta «Le società hanno supportato le curve che poi hanno influito sulle loro scelte»

UDINE. «Non ricordo di aver mai parlato così a lungo. Forse l’ho fatto perché lei è friulana». Termina così una lunga intervista concessa da Dino Zoff a L’Espresso (oggi in edicola con la Repubblica), firmata da Floriana Bulfon, giornalista che nel recente si è occupata – sulla stampa e in tv – di inchieste su criminalità, racket, armamenti e traffico di migranti. Così l’ex portiere della Nazionale mondiale, il ct che sfiorò il titolo europeo nel 2000, il presidente della Lazio dell’era Cragnotti ha parlato di calcio e mafia, argomento delicato dopo il “tornado” che ha coinvolto il numero uno della Juventis, Andrea Agnelli, nel quadro dell’inchiesta Alto Piemonte, sulle infiltrazioni della ’ndrangheta a Torino.

«Non conosco i dettagli dell’indagine e per questo, come è mia abitudine, non commento – ha premesso Dino Zoff –. Vero è che prima le società hanno supportato le curve per sostenere le squadre e poi nel tempo gli hanno permesso di influire sulle scelte. Non credo però che abbiano un potere così determinante. E comunque non diverso da quello di trenta anni fa. Però mi sembra di assistere alla decisione di ridurre il limite di velocità a trenta chilometri orari per quelle strade piene di buche, invece di intervenire sul problema riparandole. In questo Paese accade. Fuori e dentro il mondo del pallone».

Il filo conduttore di una lunga chiacchierata che viaggia sul binario delle regole da seguire. «Con mio padre non si parlava tanto – ha spiegato Zoff parlando delle sue origini contadine, di un ragazzo nato negli Anni 40 a Mariano del Friuli –, le regole erano quelle, se avessi trasgredito mi sarei ritrovato fuori dalla porta. La scelta era tra studiare e imparare un mestiere. E poi se c’era tempo, c’era anche il calcio. Perché era considerato un gioco, non un lavoro. Un gioco autentico».

Un gioco che non c’è più, soprattutto ai piani alti, dove il business inghiotte anche la morale: «L’esaltazione di una singola vittoria, sbandierata in maniera esasperata, svilisce la sostanza del calcio». E poi ancora: «Ci sarebbe bisogno di responsabilità, di avere comportamenti adeguati. Diversamente, se si vive tutto in maniera troppo esasperata e senza rispetto, si perdono le basi della civiltà».

Quindi il flashback sulla famosa partita a carte dopo la magica notte del Bernabeu, in coppia con un altro grande friulano, Enzo Bearzot («Per me un secondo padre»), contro il presidente Sandro Pertini e il Barone Franco Causio. L’immagine della semplicità: «Rispecchia quel momento perché non era finta».

E poi la sua Juventus, lontana dal calcio che adesso richiama cinesi, arabi e americani che investono nei club europei. «Ai tempi dell’avvocato Agnelli il rapporto era diretto. Era uno innamorato del calcio. Il suo non era tanto un investimento, quanto una cosa di cuore, di tifo».©RIPRODUZIONE RISERVATA

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