«Tutti dentro quella porticina: così ci siamo ritrovati nel girone infernale del calcio»

UDINE. «La porta d’ingresso al settore Z era più piccola di quella lì». Adriano Zanini indica la porta della cucina della sua casa di Buja, ben più larga degli 80 centimetri di quel “tornello verso l’inferno” di quella sera all’Heysel. Adriano era uno dei sette. Sette tifosi, sei juventini sfegatati meno uno, lui, che della Vecchia Signora era solo simpatizzante, partiti in camper dal Friuli per andare a vedere la finale della Coppa dei Campioni.
«L’avevamo deciso qualche mese prima. Se la Juventus va in finale andiamo in Belgio», si era detto quel gruppo. Affiatato, con tante cose in comune. La prima: la passione per il calcio. Molti, nonostante fossero già cinquantenni, giocavano ancora in una squadra amatoriale.
Adriano racconta. La cucina sa di primavera inoltrata. Due pacconi di asparagi, verdura fresca. «Come quel maggio», ricorda Mary, la moglie. Perché in questa storia d’immenso dolore, c’è quello di chi finì in quel girone infernale e quello dei parenti a casa a vedere la partita in tv e poi per lunghe ore in attesa d’una notizia.
Adriano Zanini era capo officina in una concessionaria, un altro, l’amico, il compagno nell’Amatori calcio Buja, Dionisio Fabbro, 51 anni, faceva il muratore. Che in uno dei paesi nove anni prima cratere del terremoto del Friuli voleva dire due cose: fatica e lavoro, anche troppo.
Poi col camper e un’auto partirono pure Ugo, Stefano, Mario, Francesco, Glauco. Biglietti presi per tempo. «Diecimila lire, ricordo che ne comprammo due in più e li rivendemmo per qualche lira di più in un autogrill a due italiani poco prima di Bruxelles». Si ferma. Si alza. «Il biglietto ce l’ho ancora». Prende il portafoglio e lo tira fuori. “FINALE. Coupe Clubs Champions Europèens. Z. 300Fr.”
Partenza lunedì sera, notte di viaggio. Spaghettata durante la strada, qualche sosta. Bruxelles. Martedì un po’ di turismo con tappa obbligata all’Atomium e verso le 16 del mercoledì via allo stadio: «Meglio andare per tempo». Nel parcheggio, tra gli italiani, i friulani spuntarono come funghi. Foto di rito accanto alla Ferrari di Bepi Zanella di Amaro.
Rieccoci alla porticina. «Cominciai a notare che troppa gente doveva entrare da lì, si accalcava. Ricordo che “Nisio” mi disse: “Altro che partita, qui è già tanto se portiamo a casa la ghirba”, la pelle».
Polizia? «Qualche agente. Arrivarono solo dopo con i cavalli». Lo stadio è pieno come un uovo. Di più: 58 mila tifosi anziché 50 mila, almeno 4-5 mila hooligans inglesi entrati senza biglietto.
«Il settore Z? Il pavimento era in terra e sassi, poi sui gradoni c’erano delle colonne alte un metro e mezzo a due a due unite con una spranga d’acciaio».
Meno di un’ora e mezza alla partita. «Gli inglesi cominciano a tirare di tutto, sassi, porfido. A un certo punto la gente spinge. Spinge, ti trascina giù. Comincia tutto».
Adriano fa fatica a raccontare, in questi anni gli hanno tirato fuori quei ricordi a fatica. «Altri quattro riescono a buttarsi fuori dallo stadio saltando un muro di 4 metri, io, “Nisio” e Ugo veniamo trascinati giù verso la rete di recinzione». Calpestando, corpi e volti.
«Nisio non l’ho più visto. Ugo l’ho poi visto ferito ma cosciente sul campo. Mi sono salvato perché avevo la mania delle scarpe con il velcro. Le persone schiacciate cercarono di afferrarle per rialzarsi e me le sfilarono via facilmente senza trascinarmi all’inferno. La recinzione crollò, mi ritrovai scalzo, con qualche costola incrinata sul prato. Vivo, ma “Nisio” non c’era».
Mentre quell’assurda partita si giocò i cinque del camper messisi in salvo si ritrovarono sotto la tribuna centrale. «Vedemmo i sacchi neri coi morti dentro. Poi andammo al posto di polizia, due km a piedi. Fuori c’era già l’elenco dei 39 morti, Dionisio era il secondo. La marea umana lo fece sfracellare contro un muretto di cemento. Nessuno parlò quella notte, io tornai con un paesano che avevo trovato sul campo e aveva il biglietto in tribuna».
«Telefonò alle 6 del mattino –, ricorda la signora Zanini –: ma io per fortuna aveva già saputo che era salvo». Dolore. E ancora dolore. Il giorno del funerale di Dionisio Fabbro qualcuno si accorge che quella bara era troppo piccola per contenere il corpulento muratore.
Aprono, spunta il volto di un altro. In un paesino della Calabria stessa scena, ma col volto di “Nisio”. Marilena, la vedova, che ancora oggi ogni giorno va al cimitero a rinfrescare i fiori del marito, va a prenderselo dall’altra parte dell’Italia. Altro dolore.
E poi ancora dolore. L’avvocato Claudio Pasqualin, poi re del calciomercato, si occupa del risarcimento delle vittime. Alex Del Piero, uno dei suoi assistiti d’oro, aveva 11 anni, 12 anni dopo avrebbe alzato a Roma la Coppacampioni della Juve. Quella “vera”.
«Per conto della vedova Fabbro seguii il processo a Bruxelles, avvocato di parte civile – spiega –. Udienze interminabili e un ricordo indelebile: gli sguardo vuoti degli hooligans. Li identificarono guardando i filmati migliaia di volte. Il giudice all’appello elencava i nomi e accanto a loro aggiungeva sans occupation. Presero condanne miti. I risarcimenti alle vittime? Briciole».
Torniamo ad Adriano. «Io e “Nisio” avevamo vinto un torneo con la squadra di amatori a Cison del Grappa due giorni prima di partire per il Belgio. Feci fatica, ma tornai a giocare anche per lui. Allo stadio? Ci tornai a Udine a Italia 90, in tribuna».
«Per anni s’è svegliato di notte urlando», ricorda la moglie». Adriano rimette il biglietto nel portafoglio. Riprende la foto del gruppo con la Ferrari. Indica l’amico. Quello che non c’è più. —
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