SVELÒ I LEGAMI TRA CAMORRA E CALCIO E FU GAMBIZZATO

Luigi Necco era ed è molto più di quel che resta nei ricordi di chi l’ha visto e nel raccontato a chi non c’era. Di lui veniva facile pensare che non potesse o non dovesse morire mai, perché il suo...

Luigi Necco era ed è molto più di quel che resta nei ricordi di chi l’ha visto e nel raccontato a chi non c’era. Di lui veniva facile pensare che non potesse o non dovesse morire mai, perché il suo modo di vivere appariva senza tempo, mai ancorato a un’epoca anche se a una stagione della nostra storia di fatto era legato. Necco è morto a 83 anni nella sua Napoli: era cantore e attore al tempo stesso, senza strabordare, serio anche negli attimi di ilarità, mai ingombrante nonostante la mole.

Era uno degli ultimi miti ancora in vita dell’epopea di “90° minuto”, la trasmissione pomeridiana delle domeniche Rai che negli anni Settanta e Ottanta era al massimo splendore e ci faceva scoprire i gol che avevamo solo immaginato con le radiocronache di “Tutto il calcio minuto per minuto”.

Più di ogni altro rappresentava l’epopea di un calcio che non c’è più e anche di un modo di raccontarlo che oggi sarebbe improponibile ma non perché superato. Non potrebbe mai starci uno come lui, sempre schietto e mai calcolatore, in quegli studi tv popolati di ex calciatori e sedicenti allenatori in cerca di panchine, congreghe di Pindari pronte a paragonare con Messi l’autore di una tripletta al Chievo, di vedere nuovi Pelé o Maradona in chi al massimo potrebbe portargli le scarpe. Viene da immaginare il suo sguardo di traverso del valore di più di mille parole mentre li ascolta e pensa a Maradona, lui che lo ha visto nel fiore dello splendore calcistico. Lui che trovò anche gloria internazionale per una domanda ripresa da tutte le tv («Cabeza de Maradona o mano de Dios?») ai Mondiali 1986, quando Diego segnò di mano all’Inghilterra.

In Necco, insomma, c’era molto di più di quel che sembrava, il folklore di quelle frasi che lo hanno reso celebre: «Il Parmigiano sotto e il pomodoro sopra» dopo una vittoria sul Parma e «Milano chiama, Napoli risponde» con la mano che indica il numero dei gol fatti dai partenopei. La mostrava a tutti ma soprattutto al collega milanese che lo aveva preceduto nella scaletta della trasmissione. La parodia di Teo Teocoli con Felice Caccamo era un modo per estrarre ed estremizzare la napoletanità che era molto di quel personaggio ma non era tutto. Perché all’appartenenza ostentata faceva da contraltare un rigore e un’estrema oggettività della narrazione di quei 90 minuti. Insomma, sapevi che tifava Napoli ma che te la raccontava giusta.

Necco ha lavorato fino all’ultimo: il pensionamento Rai non è stata che una tappa prima del passaggio ad altri schermi e ad altri impegni. Non si occupava solo di calcio, Necco era archeologo (scopritore di tesori perduti) e scrittore. Per la Rai è stato volto della trasmissione “L’occhio del faraone”, una scia di documentari sull’archeologica mediterranea. Poi ha condotto “Mi manda Raitre”, programma dalla parte del consumatore.

Nel 1981 fu gambizzato dalla camorra, perché rivelò quel che era sotto gli occhi di tutti: il legame fra il boss della nuova camorra organizzata Raffaele Cutolo e l’Avellino. Quando il boss finì sotto processo, il giocatore più rappresentativo della squadra irpina, il brasiliano Juary, si avvicinò alla gabbia dell’aula per consegnare una medaglia con scritto “a don Raffaele, con stima”. Chi gli aveva sparato accanto alla sua auto fece trovare un pizzino con scritto “Tu vuliv’ fa ’o criticone??”.

Già, criticone era chi faceva il proprio mestiere senza sconti e senza omissioni. Oggi non sarebbe tanto semplice e per questo era bello incontrarlo ancora sugli schermi delle tv campane o in giro per le strade di Napoli.

Un paio di anni fa lo incrociai più volte in uno dei “suoi” ristoranti di riferimento. Aveva un tavolo fisso, dove cambiavano i commensali ma lui era sempre lì a disquisire. Gli altri più che altro ascoltavano, chiedevano. Non c’era saccenteria, anzi. Il silenzio dei commensali era rispetto e anche voglia di sapere, capire.

I napoletani gli hanno voluto bene ma non solo perché era uno dei narratori dell’epoca d’oro di Maradona. Diciamo che si sentivano ben rappresentati. E possiamo dire che ha ben rappresentato non solo loro, perché piaceva a tutti. In fondo anche a chi gli aveva fatto sparare.

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