Sotomayor, leggenda dell’alto «Così riuscivo a volare a 2.45»

Il primatista del mondo cubano racconta la carriera epica: l’Olimpiade vinta e quelle saltate per i boicottaggi, gli ori Mondiali



Sono passati quasi ventisette anni da quel 27 luglio 1993, quando si arrampicò sul tetto del mondo. Ma da allora nessuno è ancora riuscito a scalfirne il regno.

Il suo record, quell’incredibile 2 metri e 45 centimetri saltato nella spagnola Salamanca, è ancora lì, apparentemente inarrivabile, a legittimare il titolo di leggenda dello sport. Proprio così, perché Javier Sotomayor non è un nome come un altro, sembra una divinità mitologica: l’uomo con le ali, l’uomo che sapeva volare. Si, perché il cubano che ha incantato il mondo con le sue imprese nel salto in alto sapeva volare per davvero, raggiungendo altezze che ancora oggi sembrano impossibili per un essere umano.

Imprese che restano indelebili. Anche e soprattutto per la curva di rendimento tenuta in 17 anni di carriera da “El principe de las Alturas” (il principe delle altezze), oggi segretario della Federazione cubana di atletica leggera. In una disciplina così logorante (per gli infortuni, ma anche per la tenuta mentale) come il salto in alto, infatti, anche i grandi campioni sono costretti a vivere di exploit: lui no, lui è stato capace di volare per ben 21 volte sopra il muro dei 2 metri e 40 centimetri. Cose mai più viste.

L’unica a non dire la verità, paradossalmente, è la sua bacheca. Oltre ai sei titoli mondiali (4 indoor), ai tre trionfi ai campionati panamericani e ai due record mondiali ancora di sua proprietà (il 2.43 indoor e il 2.45 all’aperto), quasi stridono le due “sole” medaglie olimpiche: l’oro a Barcellona 1992 e l’argento a Sydney 2000 (ad Atlanta 1996 fu solo 12º). Possibile? Si, perché due olimpiadi Javier Sotomayor se le è viste negare da scelte politiche. Nel 1984, a Los Angeles, ci fu il boicottaggio di tutti i Paesi dell’ex blocco sovietico, mentre nel 1988 (Seul) la sua Cuba disertò i Giochi in segno di solidarietà con la Corea del Nord. «Nel 1984 ero giovanissimo, avevo 17 anni, è vero, ma quell’anno saltai 2,33 metri, stabilendo il record mondiale Juniores: una misura che mi sarebbe valsa il podio a Los Angeles», ha ricordato con il sorriso che non lo abbandona mai Javier Sotomayor, ieri in visita alla redazione del Messaggero Veneto in qualità di testimonial del meeting Udin Jump Development, in programma oggi a Udine. Con lui anche due bandiere dell’alto friulano come Alessandro Talotti e Luca Toso, legati a Sotomayor da una solida amicizia, oltre al presidente dell’associazione Udin Jump Development, Daniele Fachin.

A Seul, quattro anni dopo, Sotomayor sarebbe stato l’uomo da battere.

«Mi è dispiaciuto non esserci, nel 1988 una medaglia era alla mia portata. Anche quella del metallo più pregiato. Una settimana prima dell’inizio di quei Giochi saltai il record del mondo a Salamanca, 2 metri e 43 centimetri. Sapevo di essere il più forte e lo avevo dimostrato. Cuba, però, è una nazione che ha sempre voluto dare una testimonianza agli altri popoli: è stata una scelta del mio paese, non posso avere rimpianti per questo».

Torniamo a Salamanca: il primo record del mondo.

«E stata una sensazione indescrivibile, mi emozionai. Un’emozione maggiore anche di quella che provai saltando 2 metri e 45, quello che ancora oggi è il record del mondo: 27 luglio 1993, sempre a Salamanca. Quella volta scesi in pedana più consapevole, mentalmente ero pronto».

Quasi un ventennio di carriera, ma la prima Olimpiade non si scorda mai: Barcellona 1992, medaglia d’oro.

«Avevo già fatto il record del mondo, ho gareggiato sapendo di essere il favorito. Di quell’edizione dei Giochi, però, ricordo bene la grande pressione che avevo addosso: tutti mi aspettavano e avevo avuto quattro anni per capire quanta responsabilità avevo. Non è stato facile, in fin dei conti ero un debuttante ai Giochi».

Perchè a distanza di 27 anni Sotomayor è ancora il numero 1 del salto in alto?

«La prima volta che feci il record, nel 1988, mai avrei pensato che nel 2020 sarei stato ancora il primatista mondiale. Ma se son resistito così a lungo la spiegazione non può essere solo una, perché di talenti ne sono scesi in pedana anche dopo di me. Ma il salto in alto è una disciplina molto complicata, difficile: un atleta di questo sport è soggetto più di altri a infortuni seri, serve il gesto tecnico perfetto per raggiungere certe altezze e bisogna essere forti anche di testa. La verità è che sono stato anche fortunato, perché ho saltato in quella che considero l’epoca d’oro del salto in alto, quando c’erano tanti atleti fortissimi. E questo ti stimolava a dare il massimo. A ogni salto».

Siamo in Friuli, patria di quell’Alessia Trost che per ora resta un’incompiuta: a 19 anni ha saltato 2 metri, può rifarlo a 26?

«Certo, non si saltano due metri per caso. Non so quali problemi abbia avuto, ma se avrà voglia, se sarà convinta di quello che fa, quelle misure torneranno. Magari già qui a Udine». —



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