Record, il boicottaggio a Mosca e l’infortunio: i sogni olimpici infranti di Massimo Di Giorgio

UDINE. A 17 anni si era accorto che poteva volare. E il mondo si era accorto di lui. Era il 1975 quando un giovane friulano, Massimo Di Giorgio, nato a Udine il 22 marzo 1958, fece (per la prima volta) parlare di sè superando l’asticella posizionata a un’altezza di 2,17 metri. Una misura straordinaria per uno della sua età: era la miglior prestazione al mondo per la categoria Allievi.
Fu solo il decollo. L’inizio di un percorso che portò Di Giorgio, nel giro di 4 anni, a diventare uno dei primi dieci saltatori in alto del pianeta: «Ho avuto un progresso molto veloce - riavvolge il nastro l’oggi 61enne Di Giorgio -, miglioravo praticamente di gara in gara».
Nel 1979 quella che ha definito la vittoria più bella.
«Medaglia d’oro ai Giochi del Mediterraneo, a Spalato: saltai 2.26 metri. Avevo preso coscienza dei miei mezzi: quell’anno ho migliorato tre volte il record italiano saltando 2.25, 2.26 e 2.27. Mi sentivo pronto».
Nello stesso anno fu uno dei protagonisti della famosa notte dei record.
«Stadio Dall’Ara, Bologna. Era il meeting per celebrare il record nei 200 di Pietro Mennea a Città del Messico. Saltai 2.27 metri: feci il nuovo primato italiano, ma non vinsi quella gara. La misura la facemmo in tre: io, Oscar Raise, che vinse per un numero minore di errori in gara, e Bruno Bruni, anche lui friulano e che a mio modo di vedere fece la vera impresa della serata, perché era l’unico dei tre che saltava ancora con lo stile ventrale. Una notte indimenticabile».
Poi arrivò la sconfitta più cocente per lei.
«E non arrivò in gara. Da due anni lavoravo tantissimo, avevo fatto una grande preparazione. Con un obiettivo: le Olimpiadi di Mosca 1980. Un sogno che mi venne negato».
A disertare quell’edizione (in segno di protesta per l’invasione sovietica dell’Afghanistan), seguendo l’esempio degli Usa, furono 65 Paesi. L’Italia, con altre 14 nazioni, decise di inviare (ma non sotto la propria bandiera) solo gli atleti non tesserati con i corpi militari.
«Ci andarono Mennea, Damilano, Sara Simeoni, che non erano nei gruppi sportivi delle forze armate. Io, e tanti altri, no: nel 1977 ero entrato in Polizia, le direttive ministeriali furono chiare. Mi crollò il mondo addosso. Furono otto le medaglie d’oro italiane: ma nelle cerimonie niente tricolore, niente inno di Mameli».
Fu l’inizio della fine per la sua carriera?
«In pratica si. Non superai mai quella delusione, sentivo che mi era stato tolto qualcosa. Ingiustamente. Nel 1980 l’allora presidente Pertini premiò i medagliati a Mosca, consegnando loro l’onorificenza di Cavaliere, a titolo risarcitorio si disse. A me avevano tolto tutto impedendomi di andare a Mosca e nessuno mi ha mai risarcito. Dissi basta e nel 1981 diedi addio alla divisa».
Ma i risultati continuarono ad arrivare...
«Avevo lavorato talmente bene per Mosca che vivevo di rendita. Il 15 giugno 1981 un nuovo record italiano, 2.30 saltato a casa mia, allo stadio Friuli: un’emozione indescrivibile. Nello stesso anno la medaglia di bronzo in Coppa Europa a Zagabria e il sesto posto in Coppa del mondo a Roma, il bronzo agli Europei indoor di Budapest del 1983, quando mi laureai anche campione di Francia Indoor, a Parigi: ero stato invitato dalla federazione transalpina, era un titolo Open. Vinsi saltando ancora 2.27».
Come svanì anche il secondo sogno olimpico?
«A Los Angeles 1984 ci avevo pensato, certo, ma nel 1983 mi operai al tendine rotuleo della gamba destra, quella di stacco. Per me era finita».
Nel 2004 ha conteso a Franco Arese la presidenza Fidal: nel 2020 ci riproverà?
«Ci sono già quattro candidati, potrebbe spuntare un quinto nome, ma non sarà il mio. Mi sono sempre messo a disposizione dell’atletica, appoggiando quelle che reputo le proposte migliori. Intanto ho aderito al “Manifesto dei volonterosi” che anima il movimento “Insieme per l’Atletica.. oltre la passione”. Un progetto serio. Ma mi concentro sul mio ruolo di dirigente dell’Atletica Malignani - Libertas Udine».
Un solo bronzo agli ultimi Mondiali: l’atletica italiana è ammalata?
«Se guardiamo le medaglie, l’Italia ha grandi difficoltà nelle grandi competizioni. I fattori sono tanti, ma i talenti li abbiamo. E non parlo solo di Tortu. Il problema dell’atletica è che ha una scarsa partecipazione, fatica a coinvolgere i giovani. Oltre che idee, però, servono anche più investimenti sullo sport. L’atletica, poi, ha anche sbagliato di suo: si è chiusa troppo in se stessa».
Come sta, invece, l’atletica friulana?
«Sta bene. Penso ad atleti come Trost, Rossit, Vicenzino, a giovani come Matteo Spanu e Giada Andreutti. Le società hanno lavorato e stanno lavorando bene, anche in chiave futura. Diciamo che siamo un’isola più felice di altre, anche se con i problemi di tutti». —
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