Quando Bartali sulla Mauria aiutò Coppi

UDINE. Se sali su, pedalando sulla strada che porta verso il passo della Mauria, ti pare quasi impossibile che qui un ciclista vero, un campione delle due ruote possa andare in crisi.
La pendenza sale leggera, i quattro famosi tornanti, che si attorcigliano sotto il cipiglio roccioso del Cridola, profumano di aghi di pino e silenzio (e funghi quando ci saranno), il rivolo neonato del Tagliamento gorgoglia appena sotto le tue ruote che salgono leggere. Non c’è traccia di fatica disumana.
Eppure qui, su questi stessi tornanti che accompagneranno la carovana del Giro d’Italia dopo il tormento spietato dello Zoncolan, un ragazzo di 20 anni ha rischiato di compromettere le sorti della sua carriera ciclistica. Da giovane promessa di belle speranze poteva trasformarsi in un banale gregario, anziché volare sulle strade del ciclismo come un airone inarrivabile.
È il giugno del 1940, il Giro d’Italia annusa già i venti di guerra, ma si deve correre e si corre da Milano a Milano. Bartali è il campione, il favorito. Ma il ciclista è un uomo fragile, vulnerabile, indifeso. Spesso le sue sorti sono appese alle beffe del destino: c’è sempre una foratura all’orizzonte, una crisi di fame a tradire, una caduta assassina.
Accade anche a Bartali che se ne va giù, lì, tra Torino e Genova, dopo appena un paio di tappe, beffato da un cane qualsiasi, destinato a un’effimera fama per aver tagliato la strada al grande favorito. Bartali finisce a terra, sente il dolore, avverte la ferita della cattiva sorte, ma ci si tira su e si va al traguardo lo stesso con un ritardo che però tappa dopo tappa lo allontana dalla cima rosa della classifica.
Pochi giorni dopo, sotto il diluvio, in vetta all’Abetone, un ragazzo di venti anni, gregario di Bartali, stupisce tutti. Ecco allora che la maglia rosa finisce sulle spalle minute e sul petto da airone di tale Coppi Fausto da Castellania, un ragazzino appena arrivato nella Legnano capitanata da Bartali. Eberardo Pavesi, direttore sportivo della squadra, non ha dubbi: la maglia rosa è Coppi, quindi si corre per Coppi. E così sarà.
Tutto tranquillo fino al mattino del 4 giugno. Si parte da Trieste: 202 chilometri di strade d’altri tempi a scollinare passi e valichi per poi raggiungere Pieve di Cadore.
E proprio su quei quattro tornanti che arrampicano fino al passo della Mauria, gli stessi che verranno affrontati il 20 maggio nel corso della seconda tappa friulana di questo Giro, accade l’imprevedibile. Coppi è giovane, non è abituato ai massacranti chilometraggi dei girini.
Qualcosa si spacca dentro di lui. La fatica forse, la paura di dover vincere, un attimo di sconforto, il peso della maglia rosa. Chissà. Coppi ha sempre alternato ebbrezze esuberante a malinconiche solitudini. Perché in fondo un ciclista è sempre solo anche in mezzo al gruppo.
Solo con le sue sensazioni, con le sue gambe che non rispondono, con il senso del proprio limite, con il freddo, la fatica, il caldo, la fame. Così a volte l’insopportabile idea di perdere, di arrivare in fondo al gruppo ti fa credere che quasi quasi sia meglio abbandonare.
«Basta, smetto, fate voi!», questo avrà detto o fatto capire ai suoi compagni che salivano i tornati del passo. Con lui però c’era Ginettaccio, il suo futuro grande avversario. Ma nel giugno del ’40, sotto il Cridola, Bartali è suo compagno, suo gregario, suo fratello maggiore.
Quasi lo prenderebbe a sberle il Coppi: «Acquaiolo, sei un acquaiolo!», gli grida, mentre gli ficca la faccia dentro a un mucchio di neve (così narrano le cronache), mentre prova a fargli capire la differenza che c’è fra un portaborracce e un campione. E se lo mette dietro, a ruota. E se lo porta su non come un fardello, semmai come un fratello più piccolo e giovane. Da proteggere.
Sì esatto. Sul passo della Mauria quei due che ben presto saranno acerrimi rivali, quei due che spaccheranno l’Italia in due, si comportano come compagni solidali, uniti dalla fatica, dalla voglia e dalla capacità di vincere, dalla fedeltà a un patto stipulato e rispettato.
Miracoli dello sport? Proprio così! E in particolare della bici, sport individuale, dove i giochi di squadra valgono sì, ma solo in parte, perché a un certo punto si è soli con il resto dei chilometri, dei tornanti, della polvere.
Ma un compagno che condivida con te il salire, il pedalare, il soffrire può aiutarti a reagire, a farti capire che il vero ciclista è quello che va anche quando non ce la fa. Perché essere campioni non è solo questione di muscoli e di fiato, ma anche di carattere, di voglia, di rabbia.
Coppi si aggrapperà a Bartali, arriverà a Pieve di Cadore ancora in maglia rosa, quella maglia rosa che porterà sulle spalle fino alla fine, grazie a quell’aiuto, a quella mano tesa che un giorno (chi può saperlo davvero? ) prenderà o passerà una borraccia all’ex compagno ora divenuto rivale.
Fausto Coppi, il più giovane vincitore di un Giro d’Italia, si toglierà di dosso il titolo di “acquaiolo”, per trasformarsi in un angelo con le ali, dal carattere fragile come un eroe omerico. Coppi è un airone, Bartali un mulo cocciuto, uno vola l’altro morde, uno tace l’altro parla.
Due solitudini diverse. Ma chissà se davvero sono stati rivali così feroci come ci è stato fatto credere. Forse lo avevano ben capito che quello dei nemici era solo un gioco a cui giocare.
Ogni tanto si saranno anche odiati per un traguardo tagliato o troppo presto o troppo tardi, ma si trattava di attimi, momenti.
Perché Coppi non l’aveva mai dimenticato quell’aiuto lassù alla Mauria e Bartali chissà quante volte, vedendogli scappare sotto il naso, triste come una salita, il Campionissimo, avrà pensato che dopotutto senza di lui e senza i tornanti della Mauria Coppi Fausto da Castellania sarebbe rimasto nulla di più che un misero acquaiolo.
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