Pizarro fa ancora assist: «Udinese, torna all’antico e punta tutto sui talenti»

UDINE. Ha portato Davka e Bastian, i suoi primi due figli (poi è arrivata Emma) a fare la foto davanti all’ospedale Santa Maria della Misericordia dove sono nati. David Pizarro passeggia per Udine come un cittadino qualunque: in pochi lo riconoscono, anche perché David si mimetizza sotto una coppola in stile un po’ british. Il cileno, che ha smesso di giocare un paio di mesi fa a 39 anni, è un classe 1979, si è preso un periodo di vacanza per fare il turista: Udine, Firenze e Roma. «Tornerò in Friuli il 2 febbraio per la gara con la Fiorentina», dice.
David, lo ricorda il suo esordio in serie A?
«Sì, a Venezia. Entrai a 10’ dalla fine al posto di Sottil. A quei tempi più di dieci minuti non stavo in campo».
Con il Lecce De Canio la sostituì prima dell’intervallo.
«E io me ne andai a casa prima che finisse la partita. In quel momento avrei anche fatto le valigie per il Cile, dove in effetti tornai per sei mesi. Stavo più in tribuna con mia moglie che in panchina».
Il primo allenatore che le consegnò una maglia da titolare fu Hodgson.
«Il primo anche che mi fece giocare regista. Un grande mister Roy: ci trattava come un padre fa con i figli. Il suo esonero prima di Natale dopo due vittorie ci lasciò di stucco».

L’allenatore chiave per lei fu Spalletti.
«Con lui sono migliorato molto. Ma per me fu fondamentale l’Udinese: arrivai in un club che ti dava il tempo di sbagliare e crescere».
Un aneddoto su Spalletti?
«Lo conobbi subito dopo che il medico gli aveva riferito che Alberto, l’esterno brasiliano, sarebbe rimasto fuori per un lungo infortunio: tirava testate al muro».
I momenti in bianconero che ricorda con più piacere?
«Tanti. La vittoria in casa con il Milan del 2003 giocando tutto il secondo tempo in dieci: segnai su rigore e nel finale per poco non feci autogol. Ma ricordo anche i successi a San Siro: andavamo al Meazza e sembrava che giocassimo nel giardino di casa nostra».
Nel secondo anno di Udine lei fu messo fuori rosa perché non rinnovava il contratto.
«Avevo ancora un anno e mezzo di accordo, non capivo, è una cosa che ho visto fare solo ai Pozzo. Fu Spalletti che mi convinse a firmare».
Dopo la conquista del preliminare di Champions lei puntò i piedi per andare via.
«Da due anni ero sul mercato, volevo salire di livello. Puntai i piedi come aveva fatto la società quando non rinnovavo: 1-1 e stretta di mano».
I tifosi non la presero bene...
«Li capisco, ma io avevo le mie ambizioni. Mi hanno fischiato quando sono tornato, ma io al Friuli e all’Udinese sono rimasto legato. A Udine vive il mio migliore amico e quando posso ci torno sempre volentieri».
Andò all’Inter, ma rimase un solo anno.
«Dall’Udinese avrei dovuto passare alla Roma, ma visto come si erano lasciati i Pozzo e Spalletti fu impossibile. In giallorosso arrivai con un anno di ritardo».
Fu pagato da Moratti 12 milioni più la comproprietà di Pandev. Oggi quanto intascherebbe l’Udinese per uno come lei?
«Se il Liverpool ha speso 70 milioni per Alisson, un portiere, fate un po’ voi...Il calcio è cambiato, contano solo i social. Basta un gol per rendere grande un giocatore. Quando l’Udinese mi prese mi seguiva da tre anni, ovvero da quando, a 16, esordii nella serie A cilena».
A Roma lei ha conosciuto Pradè, oggi dt dell’Udinese...
«Daniele è stato una figura importante per me. Alla Roma è riuscito a fare grandi cose con pochi soldi».
Pradè di lei dice: «David era un giocatore da top club tipo Real Madrid e Barcellona». Mai avuto neanche un contatto?
«No, c’era stata l’ipotesi Atletico Madrid. E comunque ho giocato sei mesi al City dove ho vinto la Premier all’ultimo secondo con Mancini in panchina. Esperienza fantastica».
In Inghilterra ha conosciuto Balotelli.
«Ci avevo giocato assieme già all’Inter quando aveva 16 anni: segnava e non esultava. Talento incredibile rimasto inespresso».
Negli ultimi due anni a Roma ha tenuto banco la lite Spalletti-Totti. Lei da che parte sta?
«Mi dispiace per questo epilogo, anche perché tra i due nel primo periodo c’era stato un grande rapporto. Però con una bandiera del calcio mondiale il mister doveva usare un po’ di tatto».
Pizarro, è mai stato vicino a un ritorno a Udine?
«Sì nel 2015. I Pozzo attraverso un intermediario mi dissero che erano interessati, io però avevo già deciso di tornare in patria».
E oggi a quasi 40 anni che cosa potrebbe combinare?
«Ho smesso due mesi fa, uno non disimpara. Farei la mia figura, un po’ come Sensini ai miei tempi».
Ci elenca la sua Udinese ideale dell’era Pozzo?
«Handanovic in porta, Bertotto, Sensini e Felipe in difesa, Isla, il sottoscritto, Muntari e Jankulovski a metà campo, davanti il tridente Sanchez, Di Natale, Amoroso. Mi sarei divertito un mondo a giocare dietro a quei tre».
A proposito di Totò: lei ci ha giocato un anno a Udine. Si capiva cosa avrebbe potuto fare da prima punta?
«Sì, talento purissimo, con il pallone tra i piedi faceva quello che voleva».
L’Udinese di oggi soffre. Perché secondo lei? E quale consiglio si sente di dare ai Pozzo?
«Mi viene da dire che bisognerebbe tornare alle origini puntando sul talento. Oggi sento solo parlare di forza fisica: a correre siamo bravi tutti, ma la differenza la fa la tecnica. Bisogna tornare a puntare anche al lato estetico del calcio, a giocare nella metà campo avversaria. In Italia l’unico giovane che salta l’uomo è Chiesa».
Qual è il più grande cileno che ha indossato la maglia dell’Udinese? Sanchez o Pizarro?
«Dura scegliere. Del Niño posso dire che è un ragazzo che ha bisogno di sentirsi al centro dell’attenzione. Mourinho allo United non deve averlo coccolato molto».
Il campionato italiano da sette anni lo vince sempre la Juventus.
«Un po’ noioso. É l’unica squadra che, assieme all’Udinese, ha lo stadio di proprietà, e anche questo ha il suo peso».
E adesso è arrivato anche Cristiano Ronaldo.
«Per vincere la Champions League, l’obiettivo mi sembra evidente».
Meglio Ronaldo o Messi?
«Messi. Per vedere giocare l’argentino io pago il biglietto».
In Italia si è fatto un gran discutere dei buuu razzisti a Koulibaly durante Inter-Napoli. Secondo lei i calciatori possono avere la forza di sospendere di propria iniziativa la partita?
«Penso di sì. Anche se poi dobbiamo ricordarci che dietro certi ambienti c’è sempre la politica. Non è come in Inghilterra dove a suo tempo la Thatcher risolse il problema con una prova di forza. Io in Premier ci ho giocato: è tutto un altro clima, gli stadi sono splendidi, qui siamo indietro anni luce». —
BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI
Riproduzione riservata © Messaggero Veneto