Mister G, dagli ori su pista al sorpasso a re Froome Italia aggrappata a Nibali

l’analisi
aNTONIO SIMEOLI
C’è una foto che spiega molto del trionfo di Geraint Thomas, MisterG. L’ha postata sabato su Twitter un’icona del ciclismo su pista, Chris Hoy. Anzi, sir Chris Hoy, uno che in carriera ha vinto sei ori olimpici e undici titoli mondiali. La foto è del luglio 2012: Bradley Wiggins ha appena vinto il Tour de France e il gruppo di pistard inglesi, impegnato al velodromo a rifinire la preparazione in vista degli imminenti Giochi Olimpici di Londra, sono estasiati. Tra questi in prima fila c’è lui, Geraint. I suoi occhi “divorano” lo schermo, sono carichi di progetti e ammirazione, per il grande pistard Wiggins che aveva pensato di trasformarsi in ciclista su strada e addirittura aveva messo nel mirino il massimo: Tour de France.
Ci riuscì Wiggins, quel Tour 2012 lo vinse perché tutta la Gran Bretagna aveva deciso che l’avrebbe vinto, doveva essere lui a portare la fiaccola (lo fece in maglia gialla), e il Team Sky, già padrone del vapore per denari e preparazione, non si fece problemi a stoppare il rampante Chris Froome, che in salita volava rispetto al capitano. Stavolta allo squadrone non è servito intervenire, ci hanno pensato la strada e un grande Thomas, l’ex gregario. Ve lo ricordate al Giro 2017 sotto il Blockhaus dolorante a terra appena centrato da una moto della Polstrada? Voleva la maglia rosa, si diceva corsa più adatta alle sue caratteristiche.
Thomas, invece, ha allungato la resistenza alla fatica fino alla fatidica terza settimana, ha approfittato della forza della sua squadra, e della caduta di Froome alla prima tappa. Poi ha blindato la maglia gialla: a La Rosiere e all’Alpe d’Huez, sui Pirenei e anche nella crono di sabato, quando forse avrebbe battuto anche due specialisti come Dumoulin e Froome se nell’ultima discesa non avesse tirato i freni per evitare rischi. Ha vinto Thomas, perché il double Giro-Tour è stato una cosa troppo difficile anche per Froome, che sui Pirenei ha pagato le fatiche del Giro e anche un avvicinamento complicato al Tour per le note vicende. Gli hanno sputato, tirato urina, lo hanno placcato. In una corsa che ha evidenziato, tra fumogeni, lacrimogeni, gendarmi inadeguati e tifosi incontrollati e incontrollabili tutti i suoi limiti, che stanno nella stessa grandeur francese.
Ci ha rimesso Vincenzo Nibali, come si sa. Oggi finirà sotto i ferri per una complicatissima rincorsa alla Vuelta, strada maestra per un Mondiale troppo importante per la sua carriera. Sì, se lo Squalo avesse avuto qualche anno di meno se ne sarebbe fatto una ragione, ma ha quasi 34 anni, e la chance iridata passa adesso. E qui sono i dolori per l’Italia. Che si aggrappa a uno straordinario campione. Perché se il Giro era stato un campanello d’allarme, il Tour è stato una mazzata: primo azzurro il 35enne Domenico Pozzovivo 18° a 39’08”, poi Damiano Caruso 20° a 42’. Tenendo conto di un Fabio Aru balbettante, dietro a Nibali c’è il deserto. E all’orizzonte per almeno 5-6 anni, e forse più, con questi ex pistard che domano le montagne o un talento in rampa di lancio come il giovane Egan Bernal (avete visto che corridore?), non si vede un italiano in grado di succedere a Pantani. Già, sono passati 20 anni dal Tour del povero Marco. —
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