Il doppio cuore del "Pado": «Gemona e Bergamo più forti del dolore»

UDINE. «Abito in una zona molto tranquilla a cinquanta metri dal mare, potrei portarci i miei figli ogni giorno indisturbato e senza essere visto da nessuno, solo che non sarebbe giusto. Non sarei un buon padre se lo facessi. Adesso è tempo di resistere e di fare la nostra parte restando a casa».
Simone Padoin rivela buona parte di sé restando bene in sella alla bicicletta "della vita", quella su cui si è messo a pedalare instancabilmente quando è diventato padre di Andrea, Daniele e Gabriele. Il valore dell'esempio, del sacrificio e della cosa giusta, da fare soprattutto al momento giusto, sono stati i tratti ricorrenti e significativi per questo ragazzo friulano partito minorenne da Gemona del Friuli per diventare "semplicemente" se stesso, realizzandosi nel calcio.
La prima tappa lo ha portato a Bergamo, dove un altro friulano, Gigi Delneri, lo lanciò all'Atalanta prima degli scudetti vinti alla Juventus. La sua vera Dea però è stata Valentina, la moglie bergamasca conosciuta a 18 anni, e mamma dei suoi tre figli. Da Gemona alla martoriata Bergamo, il "Pado", il Talismano di Allegri divenuto celebre anche grazie alla comicità degli Autogol, estende il suo abbraccio e ripercorre la sua carriera, prossima a una svolta.
Padoin, partiamo proprio da quel mare così vicino a casa sua...
«Abitiamo a Grottamare, adesso che gioco nell'Ascoli. Questa società ha creduto in me la scorsa estate e mi ha allungato la carriera con un contratto biennale, e le sono grato. Adesso siamo fermi come tutti, e da casa vediamo il mare nell'attesa di poterci andare quando tutto questo sarà superato».
In casa, davanti alla Tv ai tempi della pandemia, e con i parenti lontano...
«Non è semplice perché la distanza dai nostri cari è notevole per me e Valentina, e amplifica la preoccupazione. Mia moglie è di Bergamo, e cosa stia passando quel territorio è sotto gli occhi di tutti. I miei suoceri hanno continuato a lavorare con l'azienda in cui operano nel ramo dei rifiuti, e fortunatamente fin da prima dell'emergenza avevano tutti i dispositivi di sicurezza. A Seriate abbiamo anche un'attività commerciale, che abbiamo chiuso, ma il peggio è stata la scomparsa di alcuni conoscenti che frequentavamo. La situazione al nord è drammatica anche se meglio da noi in Friuli. I miei genitori sono a casa a Gemona, con mio padre che ha proseguito a lavorare facendo il calciastruzzo fino quando ha potuto».
Bergamo soffre in silenzio e si dà da fare. Anche lei, che ci ha vissuto, trova delle somiglianze con il Friuli operoso che si rimbocco le maniche dopo il terremoto?
«Ho trovato tantissime somiglianze tra bergamaschi e friulani. È gente che non ama i riflettori, che a primo impatto sembra fredda, ma poi ti apre il cuore, che ha voglia di faticare per portarsi a casa pane e soddisfazioni e penso che, pur nella drammaticità della situazione, Bergamo ha fatto vedere come ci si dovrebbe comportare. Non hanno mai alzato la voce e chiesto nulla».
Da lì è cominciata anche la sua carriera da calciatore.
«È stato un passaggio importantissimo. Arrivai all'Atalanta a quattordici anni, tra le lacrime di mia mamma alla partenza. Volevo fare questo mestiere e ho sempre inseguito il mio sogno senza tradirlo, anche quando nei primi due anni di settore giovanile nerazzurro ero circondato da calciatori più forti di me. Tanti di loro però non sono arrivati a fare i professionisti e questo aiuta a capire quanto mutano le cose a quell'età. Trovarsi nel settore giovanile di una squadra di serie A non significa, infatti, fare il calciatore».
Valentina invece come è arrivata?
«L'ho conosciuta a Bergamo, avevo 18 anni, quando capii che volevo essere autosufficiente. Da allora lei è la mia vita».
Una curiosità prima di proseguire: ma all'Udinese non ha mai avuto l'occasione di andare?
«Sì, quando avevo undici anni, ma scelsi il Donatello, che stava costruendo una grande squadra e fu una decisione azzeccatissima. Ho avuto un grande allenatore come Gino Zampa, per tre anni restammo tutti insieme sotto la sua ala e quando incontravamo i nostri pari età dell'Udinese vincevamo a mani basse. All'Atalanta mi portò Gabriele Visentini, osservatore che radunò i migliori del triveneto. Al mio arrivo trovai il grande maestro Favini e non mi vergogno a dire che mi trovai molto in difficoltà al mio arrivo, con tanta concorrenza».
Quando capì che ce l'avrebbe fatta?
«Non ci fu un episodio particolare, ma avevo sempre la sensazione che se avessi dato tutto dentro e fuori dal campo allora sarei riusciuto a coronare il mio sogno. Andai quattro anni a Vicenza e poi tornai a Bergamo, dove conoscevo l'ambiente e sentivo che avrei avuto la mia occasione. Ebbi la fortuna di incontrare Gigi Delneri che ha sempre visto di buon occhio i giovani e questo è stato un grande vantaggio. Nei primi due anni facemmo due bellissimi campionati, a febbraio eravamo già salvi e inoltre a Bergamo i ragazzi usciti dal settore giovanili sono prediletti dai loro tifosi. Mi hanno sempre trattato benissimo».
Come definirebbe Delneri?
«Un amante del bel gioco, è stato uno dei primi allenatori a lavorare con la linea difensiva alta e con determinati concetti e ha fatto scuola. È stato innovativo».
Alla Juventus invece come ci è arrivato?
«Grazie a Antonio Conte, che prima di andare alla Juve era transitato per Bergamo. In quella stagione, che non fu positiva, aveva visto determinate qualità in me e la sua chiamata per me è stato il passaggio all'università del calcio. È stata la conferma che nella vita bisogna sempre dare tutto indipendentemente dal contesto in cui ci si trova e dalla situazione, e non basta farlo una volta si e l'altra no, serve avere continuità. Sapevo che avrei raccolto i frutti della mia semina».
Cinque titoli tricolore però non li aveva preventivati...
«Ho avuto la fortuna di arrivare in un periodo in cui cominciò il ciclo Juve. Il primo anno fu il più incredibile, io arrivai a gennaio, eravamo forti, avevamo degli ottimi giocatori tra cui quelli normali come me. Ci divertivamo tutti e la svolta fu la partita contro il Milan degli Ibrahimovic e Thiago Silva. Quella partita cambiò le carte in tavola e la storia del nostro ciclo».
Un aneddoto?
«Mi piace ricordare il discorso che ci fece Conte a tutti noi prima del rush finale, esortandoci a dare il massimo, facendoci capire che avevamo la possibilità di raggiungere un traguardo impensabile a inizio stagione. Conte è perfezionista e un professionista esemplare che dà tutto per il club in cui allena».
Manca Allegri a questo punto...
«Completamente diverso rispetto a Conte, di un'intelligenza unica, bravissimo nei rapporti personali e un grandissimo nel leggere le partite, sia nel mettere i giocatori dall'inizio che nel renderli complementari cambiandone poi assetto tattico. Quando arrivò non fu accolto bene, ma ha regalato pagine indimenticabili. Ha grande personalità e sa responsabilizzare i giocatori, campioni inclusi».
A proposito, ne scelga un paio di cui parlare...
«Buffon e Pirlo per le diverse personalità. Gigi anche in partita urla e sbraita. Andrea è completamente diverso e nei momenti caldi della partita si faceva dare la palla quando la squadra era in difficoltà...».
Poi quella scelta inusuale di lasciare la Juve avendo ancora un contratto.
«La Juve stava diventando sempre più forte e temevo che sarebbe stata più dura trovare posto, così decisi di andare a Cagliari, la società che mi ha voluto di più. Sull'isola è stata un'esperienza straordinaria anche a livello umano. Adesso posso dire di avere conosciuto una terra magnifica, un popolo molto unito, un po' testardo e anche qui, come i bergamaschi, sono molte le similitudini con noi friulani».
Adesso c'è l'Ascoli e con questa sospensione c'è il rischio di non giocare più...
«Fortunatamente il club ha creduto in me con due anni di contratto. Finora ho giocato ventitré partite su venticinque, ma sulla ripresa sono fiducioso. Da professionista è giusto che si finiscano i campionati, ma prima dobbiamo seguire le indicazioni del Governo perché siamo alle prese con un'emergenza incredibile. Potremmo mettere a repentaglio anche la salute dei nostri familiari e non solo la nostra. Anche per questo credo che, tra le varie attività, il calcio sarà tra le ultime a riprendere, e che ci sia la voglia di rinunciare alle vacanze sapendo di giocare a giugno e luglio».
Intanto si parla di spese da ammortizzare e ai professionisti del pallone viene chiesto un taglio agli stipendi.
«Non solo i calciatori dovrebbero rinunciare a qualcosa, ma un pò tutte le componenti. Il calcio è un'industria che produce fatturato anche per lo stato e lo stato deve dare una mano a tutte le società. I giocatori comunque faranno la loro parte, la Juve si è già mossa, ma l'importante è muoversi essendo tutti d'accordo. In questo momento è compito di ogni componente rinunciare a qualcosa». Nell'attesa di riprendere? «Mi sono creato una piccola palestra con attrezzi e macchinari e poi c'è mia moglie che sta studiando da personal trainer e mi aiuta».
Torniamo all'album dei ricordi; una partita memorabile?
«La più incredibile fu con l'Atalanta, quando battemmo l'Inter di Mourinho per 3-1 a Bergamo, portandoci sul tre a zero». Ha già pensato al suo futuro dopo la carriera da calciatore? «Mi vedo come allenatore di giovani. Ho già preso il patentino Uefa B, l'ho fatto a Cagliari, e dunque mi sono portato avanti. Potrei allenare fino alla serie B, ma ne ho parlato anche con Allegri e spero di poter insegnare e trasmettere ai giovani. Con i ragazzi penso di avere più presa, gli adulti li conosco bene, e poi non ho voglia di pesare sulla famiglia ma di godermela».
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