Il calcio piange Mariolino Corso, la poesia con la maglia numero 11

Morto a 78 anni uno degli interpreti della Grande Inter di Herrera, protagonista anche in azzurro. Il ct di Israele: «Battuti dal piede sinistro di Dio». Pelé: «Io, lui e altri nove e battiamo chiunque» 
VIENNA,27 MAGGIO 1964 FINALE COPPA CAMPIONI, INTER BATTE REAL MADRID PER 3 A 1 E CONQUISTA LA COPPA DEI CAMPIONI, SANDRO MAZZOLA E MARIO CORSO SOSTENGONO LA COPPA CIRCONDATI DAGLI ALTRI GIOCATORI, ANNI 60, B/N, 03-00025550
VIENNA,27 MAGGIO 1964 FINALE COPPA CAMPIONI, INTER BATTE REAL MADRID PER 3 A 1 E CONQUISTA LA COPPA DEI CAMPIONI, SANDRO MAZZOLA E MARIO CORSO SOSTENGONO LA COPPA CIRCONDATI DAGLI ALTRI GIOCATORI, ANNI 60, B/N, 03-00025550

Era la poesia con la maglia numero 11, era il più mancino fra i maghi del piede sinistro, era qualcosa di unico, molto oltre l’ultimo nome di quella filastrocca che cominciava con Sarti, Burgnich e Facchetti e finiva con il suo nome, quello che Gianni Brera aveva definito «participio passato del verbo correre», per il suo incedere che sembrava la réclame dell’indolenza e che invece era la classe pronta a esplodere in ogni momento.

Mario Corso se n’è andato ieri, a 78 anni, dopo averne trascorsi quasi 50 nel pallone, lasciando più di un segno in un’epoca in cui il pallone era sopratutto immaginato, raccontato e visto solo per quel poco che era possibile.

Mario Corso è uno che non si può descrivere solo attraverso i trofei vinti con la Grande Inter di Helenio Herrera, che pure sono tanti: quattro scudetti, due Coppe dei Campioni, due Coppe Intercontinentali.

La migliore definizione di Mario, anzi Mariolino per via di quel suo fisico certo non imponente, per le orecchie a sventola e per la voce un po’ così, l’ha data a suo tempo l’immenso Edson Arantes do Nascimento, detto Pelé: «Io, Corso e altri nove e battiamo chiunque». Sì, perché da Mario era possibile aspettarsi di tutto.

Come quella volta a Tel Aviv, nel 1961, quando l’Italia guidata da Giovanni Ferrari fino a 11’ dalla fine era sotto con Israele: 2-1 e sembrava finita. Poi al 79’ segnò Altafini e fra l’87’ e il 90’ Mario ne fece due. Il ct israeliano Gyula Mándi la spiegò così: «Siamo stati bravi, ma ci ha battuti il piede sinistro di Dio». E da quel giorno Mario è stato per tutti e per sempre “il piede sinistro di Dio”. E lo era, perché le sue punizioni “a foglia morta” erano quasi una sentenza.

La tecnica l’aveva affinata ispirandosi al brasiliano Didi. Fin da ragazzo, nella squadra del suo paese, San Michele Extra, nel Veronese. Ore e ore di allenamento con il suo primo tecnico, Nereo Marini. Un segno di grande applicazione, che non bastò con il condottiero di quell’Inter stellare, Helenio Herrera, che a ogni fine stagione si presentava dal presidente Angelo Moratti, il papà di Massimo, per chiedere di venderlo.

Non sopportava l’irriverenza nell’approccio, lui che voleva sentirsi padre e padrone. Moratti ovviamente non l’ha mai venduto, se non a fine carriera, quando Herrera tornò sulla panchina nerazzurra e la spuntò. Corso finì al Genoa, solo per due stagioni, conquistando tutti: compagni, dirigenti, allenatore e, soprattutto, tifosi. Due anni sono bastati per dargli tanto affetto e un posto nella Hall of fame rossoblù.

Corso lo riconoscevi anche per quei calzettoni perennemente arrotolati sulle caviglie, era un omaggio a uno dei suoi idoli, Omar Sivori: «Non posso giocare bene come lui, almeno posso imitarlo con i calzettoni».

Ma la prima volta che lo incontrò in un Inter-Juventus, gli fece un tunnel. Sì, era uno che un po’ faceva anche incazzare. Della sua rivalità con Sandro Mazzola, ai tempi se ne sono dette e scritte di tutti i colori (anche di spogliatoi separati) ma i due hanno sempre smentito.

Però era vero che spesso per farlo correre a vuoto lo lanciava in spazi impossibili gridando con quella voce molto fioca «Vai, Di Stefano!». Alfredo Di Stefano era uno dei grandi del Real Madrid, un giocatore infinito, che alla prima finale di coppa nel 1964 con i nerazzurri aveva quasi stregato solo con la sua presenza il giovane Mazzola.

Nel sottopassaggio prima della partita, Sandro era come imbambolato, al punto che Luisito Suarez lo dovette scuotere dicendogli: «Noi andiamo a giocare la finale di Coppa dei Campioni, che fai? Vieni anche tu?». Mazzola poi fece doppietta e l’Inter vinse 3-1 ma Corso non smise più di chiamarlo così. E se è vero che quei lanci sembravano impossibili, è anche vero che spesso regalavano gol da far spellar le mani.

Con l’Inter Mario giocava con la maglia numero 11 perché il 10 ce l’aveva Suarez ma lui era qualcosa di simile a un trequartista, qualcosa che il calcio moderno forse tenderebbe a non volersi permettere per poi ricredersi di fronte alle magie. I tifosi dell’Inter, quelli più anziani, hanno continuato a cercarlo, dopo, soprattutto in Evaristo Beccalossi e in Alvaro Recoba. Invano: uno così nasce ogni cento anni. È qualcosa che va oltre le 509 presenze e le 34 reti con l’Inter, alle 23 maglie azzurre con 4 gol.

Corso è stato anche allenatore, alla Primavera del Napoli (uno scudetto), al Lecce, al Catanzaro, al Mantova (vittoria in un campionato di C2), al Barletta e al Verona. E anche all’Inter, in una delle tante stagioni che partivano male e che finivano con un ex della Grande Inter in panchina per tentare di salvare il salvabile. Toccò a lui nel torneo 1985-1986 e il 6 aprile vinse il primo derby contro il Milan dell’era Silvio Berlusconi.

Nell’altra panchina c’era Nils Liedholm, l’unico gol lo segnò tale Giuseppe Minaudo. Fu uno fra i derby più brutti della storia. E non poteva essere certo roba per uno che il calcio lo ha sempre fatto bello. Bello come una poesia con la maglia numero 11.


 

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