Gli 80 anni di Giovanni Galeone: è nella storia dell'Udinese

UDINE. Giovanni Galeone compie 80 anni ed è doveroso celebrarlo per quello che ha dato al calcio, all’Udinese e al Friuli che ha scelto come sua casa.
«Come ci arrivo a questo giorno? Mi viene da dire non bene, ma come tutti del resto. Con questo Covid è un momento difficile per chiunque dal punto di vista psicologico. Un anno fa gli italiani erano sui balconi a cantare l’inno, a dire che sarebbe andato tutto bene. Oggi non lo fa nessuno. Pensavamo di metterci alle spalle questo virus in tempi più brevi. È cambiato il modo di vivere, è cambiato il calcio».
La premessa del “Gale” è doverosa e pacata, poi come d’incanto, il tono di voce cambia quando si comincia a parlare di pallone. «Il calcio è cambiato perché senza pubblico è tutta un’altra cosa. Un passaggio sbagliato a San Siro il pubblico lo sottolineava, ora che non c’è...».

Ottanta anni vissuti sempre a mille, a volte lontano da schemi preconfezionati sia dentro che fuori dal campo. Nato a Napoli, Galeone da bambino si trasferì a Trieste. «Mio padre era ingegnere, costruiva altiforni. Ha lavorato a Bagnoli, poi anche a Genova, ha girato un po’ tutto il mondo».
Da calciatore la sua prima squadra fu il Ponziana. «Società storica, da lì sono usciti Cudicini, Ferrini». E Galeone fu chiamato nella Nazionale Juniores che vinse l’Europeo in Inghilterra. «Io e Mariolino Corso, che giocava nell’Audace di San Michele in provincia di Verona, fummo gli unici a essere chiamati senza giocare in squadre professionistiche». In quella squadra il portiere era Albertosi, il mediano Bolchi.
«Quell’estate avrei dovuto finire all’Inter per formare il quadrilatero di centrocampo di quella nazionale, invece finii al Monza». Nei sette anni successivi Galeone cambiò sei squadre, poi nel ’66 ecco l’approdo all’Udinese che lo acquistò dal Monfalcone. A volerlo fu Gigi Comuzzi, indimenticabile allenatore e talent scout. Sette anni, poi nel 1973 l’epilogo a Vicenza nello spareggio perso con il Parma per salire in serie B. «Quella fu la mia ultima partita, ma lo dissi prima: o saliamo di categoria o mi ritiro».
Appese le scarpette al chiodo e cominciò subito la carriera di allenatore. «Ero un po’ il cocco di Lino Midolini, di Bruseschi, Brunello e Gigi Comuzzi. C’era tanta, anzi, solo friulanità in quella squadra. Quelli più lontani da Udine abitavano a Plaino e a Majano. Certo, eravamo in C, ma c’erano giocatori che poi avrebbero fatta carriera; Fedele, Franzot, Caporale che vinse lo scudetto con il Torino nel ’76».
Galeone calciatore, Galeone allenatore, Galeone spettatore. Tre epoche, tre tipi di calcio completamente diversi. «Innanzitutto è cambiata la preparazione fisica e la velocità, poi ci sono state delle modifiche tattiche che però non hanno reso migliore il calcio.
Oggi quando vedo il portiere che palleggia nell’area piccola con due difensori mi metto a ridere. Quella è una soluzione che ti può dare qualche vantaggio nel calcio a cinque, non undici contro undici». Ottant’anni oggi di cui sessanta vissuti tra campo e panchina. «Il calciatore più forte che ho allenato? Sliskovic a Pescara, ma anche Junior.
Di Natale? Quando c’ero io non era ancora così bravo e con la personalità che ha tirato fuori dopo. E poi a Udine ho avuto comunque a che fare con i vari Zico, un fenomeno, Causio, Virdis». Nell’ultima sua avventura sulla panchina dell’Udinese Galeone si inventò Candela regista. Una genialata.
«Era il giocatore di maggiore personalità, giusto dargli la bacchetta del regista anche perché rispetto alla fascia poteva risparmiare un po’ di energie. Ricordatevi una cosa: se uno diventa campione del mondo non è mai per caso, Sì gli diedi in mano lo spogliatoio e poi i vari De Sanctis e Di Natale lo stuzzicavano dicendogli: “Vai dal papà a dirgli di farti fare la partitina”. Il papà, ovviamente, ero io».
Il francese, però, lo tradì: «Mi aveva detto che sarebbe rimasto e invece se ne andò. L’anno dopo fui esonerato a fine girone d’andata quando avevo 23 punti in classifica». Con Pozzo ha sempre avuto un rapporto schietto: «Mi voleva chiamare nel 2002 a cinque giornate dalla fine per sostituire Ventura: gli dissi che se vincevano le tre gare con Brescia, Venezia e Lecce si sarebbe salvato matematicamente. E così fu».
La prima telefonata da casa Pozzo arrivò nell’ottobre del ’94: via Fedele, dentro Galeone per quella che è stata l’ultima volta dell’Udinese nella serie cadetta. «Se non avessi vinto quel campionato con Carnevale, Poggi, Pizzi, Calori, Scarchilli, Desideri, Ripa, Helveg e Kozminski avrei dovuto strappare il patentino di allenatore». Su quel telaio l’anno successivo furono inseriti un giocatore per reparto: Bia in difesa, Stroppa a centrocampo e Bierhoff in attacco e Zaccheroni costruì la prima Udinese europea.
Il Gale rivendica la paternità dell’acquisto del tedesco. «La storia non va falsificata. Carnevale era reduce dall’operazione al ginocchio, non poteva giocare in A. Fui io a dire di prendere Bierhoff: l’affare fu fatto quando andammo a giocare a fine campionato ad Ascoli dove vincemmo 5-1. Il particolare può essere confermato da due persone: lo stesso Bierhoff e Pasqualin che allora era il suo procuratore».
Zaccheroni, Spalletti e Guidolin sono gli allenatori che hanno caratterizzato i cicli più luminosi della storia dell’Udinese. Ma Galeone quale squadra preferiva? «Quella di Spalletti aveva un gioco più manovrato potendo contare su un giocatore come Pizarro, Guidolin ha avuto dei grandi calciatori. Se pensate che gente come Cuadrado, Candreva e Zielinski non giocava quasi mai.... C’erano il miglior Di Natale, Sanchez, Inler, Asamoah, Benatia, Handanovic: sono andati tutti a giocare in squadre di prima fascia».
Oggi l’Udinese fa fatica a riproporsi su quei livelli. Solo una questione di cicli? «Secondo me – spiega Galeone – si tende a puntare più su giocatori fisici che tecnici. Oggi l’unico elemento di un altra categoria è De Paul, poi l’altro molto bravo è Musso». Ha allenato grandi giocatori ma ha visto anche crescere giovani talenti a Udine. «Ai miei tempi il più talentuoso era Miano, quello con più voglia di emergere era De Agostini. Faceva la mezzala e io gli preferivo Cecotti, un ragazzo di Manzano che morì giovanissimo per un problema cardiaco.
Ma Gigi non mollava di un centimetro, e quando ebbe l’occasione di salire in prima squadra Ferrari lo impiegò terzino e fece subito benissimo».
Nel calcio attuale bastano poche partite in serie A per sentirsi arrivati, una volta non era così. Lo stesso discorso vale per gli allenatori. Il pensiero va subito a Pirlo: «È stata una scelta pericolosa da parte della Juve, anche perché l’Inter negli ultimi anni si è mossa bene avvicinandosi. Io al posto dei dirigenti juventini più che Chiesa sarei andato a prendere un altro difensore tipo Alaba e un esterno come Hakimi. Il reparto arretrato è vecchio». Lui qualcosa ne saprà visto che il suo pupillo Allegri ha lavorato per cinque anni a Torino.
«Come sta Max? Bene. Ha rifiutato il Real Madrid. Convinto lui... Io lo avrei visto proprio bene nel calcio spagnolo. Credo che la sua prossima squadra sarà in Italia. La Roma potrebbe essere una bella sfida: un rinforzo in difesa e una punta di valore che raccolga l’eredità di Dzeko e la rosa con Pellegrini e recuperando Zaniolo sarebbe molto competitiva».
Allegri è stato suo calciatore a Pescara come Gasperini e Giampaolo. «”Piero” era uno che giocava semplice perché non aveva tanta qualità, la sua Atalanta è fisica ma anche molto tecnica. Anche lui è bravo a leggere le partite, magari Allegri è un po’ più fantasioso.
Giampaolo, invece, è più metodico e legato ai suoi concetti. Gli voglio un bene dell’anima, ma alle volte è un po’ testone. Sì, è vero, è passato alla difesa a tre, ma i giocatori sono degli animaletti malefici e se si accorgono che un allenatore non crede davvero in quello che propone poi non ci credono nemmeno loro».
Ultime riflessioni sui singoli: «Tra Messi e Ronaldo scelgo il primo tutta la vita. Ibrahimovic? Lo vidi come si allenava a Milanello quando c’era Allegri e capii tutto: temperamento, attenzione ai particolari, è un rompiscatole unico ma nella maniera giusta con i compagni. Non mi sorprende che a quasi 40 anni sia ancora lì tra i più bravi».
E pensare che quel Milan che vinse il suo ultimo scudetto Allegri lo voleva rinforzare con un paio di ragazzi che aveva allenato al Cagliari: «Poi quando Max vide all’opera Nesta, Thiago Silva, Seedorf, Pato e Robinho capì che non era il caso. Quelli erano campioni, come lo era Candela».
Ottant’anni lui oggi, stesso traguardo tra quattro mesi esatti per Giampaolo Pozzo. Galeone sorride: «Chissà se riuscirei a batterlo nuovamente nei 30 metri», dice ricordano la sfida sulla pista d’atletica del campo di Asiago dove l’Udinese svolse il ritiro nell’estate del 2006. Con tutto il rispetto di questo mondo, sono passati 15 anni, meglio evitare il bis.
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