Gianni Marchiol, una vita da bomber e da rallista: a 79 anni ha detto stop

UDINE. Gianni Marchiol, classe 1939, udinese, soprannominato “Cassele”, vista la sua attività al mercato ortofrutticolo della Zau. Ma, per altri, è soprattutto una leggenda dell’automobilismo friulano, «uno dei migliori piloti che abbiamo avuto», afferma a riguardo uno dei suoi navigatori, Jean Campeis. Dopo più di mezzo secolo trascorso in abitacolo il driver si ferma definitivamente.
Dopo aver dato l’addio al mondo dei rally disputando il suo ultimo “Alpi Orientali”, lascerà le corse partecipando alla Cividale-Castelmonte, cronoscalata in programma dal 12 al 14 ottobre e gara in cui esordì nel 1966. Lo farà con la sua auto, la Renault 5 Gt Turbo, con cui hanno corso anche suo fratello Giorgio e suo figlio Marco. «Vorrei portarla via con me», afferma affettuosamente Gianni, che in Friuli è conosciuto anche nel mondo del pallone.
Partiamo da qui, dalla sua parentesi di calciatore.
«Iniziai come portiere nei dilettanti della Sangiorgina. Esordii subendo più di dieci gol. Quindi andai a Spilimbergo e cambiai ruolo: centravanti. Era il campionato di Promozione 1961-1962. Nelle ultime tre partite fui costretto a tornare tra i pali, eravamo in emergenza. Ci salvammo».
Poco dopo iniziò un’avventura molto più importante.
«Accompagnai un amico a Vittorio Veneto a un provino. Partecipai anch’io e fui ingaggiato. Debuttai in serie C col Vittorio nel 1962. Alla fine del campionato la società mi vendette al Legnano, sempre in C, per 17 milioni più un portiere. Un affare che cambiò la mia vita. Guadagnai 650 mila lire al mese: un operaio ne percepiva in media 25 mila lire. Non avevo mai visto così tanti soldi in una sola volta. Ne approfittai per costruire la casa a Basaldella, quella in cui abito tuttora».
Tornò in Friuli poco dopo, però.
«L’anno successivo morì mio papà. Dovevo rientrare a casa, l’azienda aveva bisogno di me. Acquistavamo e vendevamo imballaggi per la frutta. Da qui il nomignolo “Cassele”, che mi ha accompagnato tutta la vita. Da allora chiusi col calcio professionistico. Il Legnano mi cedette alla Sangiorgina: rimasi nei dilettanti come giocatore e poi come tecnico. Al calcio sarò sempre riconoscente. Per questo allenai sempre gratis: dovevo restituirgli ciò che mi diede».
Ma non le pesava il soprannome “Cassele”?
«Un po’. Ero sempre il ragazzo di borgata. Ma questa è sempre stata la mia forza, la miseria mi ha fatto emergere. Alle scuole elementari la maestra mi fece sedere in ultimo banco perché puzzavo: aiutavo mio papà in cucina. Sono episodi che ti segnano. Così ho sempre voluto dimostrare che c’ero anch’io, che potevo farcela con le mie forze».
Lei è stato il mister della squadra di don Larice.
«Per 30 anni. All’inizio non trovavamo giocatori: c’erano ragazzi tossicodipendenti, sieropositivi, la gente aveva paura. Stare con loro è stato per me terapeutico».
Una volta smesso di giocare si avvicinò all’automobilsmo. La scintilla quale fu?
«Portai il camion dell’azienda in un’officina. C’era un’auto disponibile per prendere parte proprio alla Cividale-Castelmonte. Mi proposi. “Vai ma non correre troppo”, mi dissero. Arrivato in cima si accesero tutte le luci dell’auto, una Morris I4. Il meccanico non mi parlò per un mese».
Da lì partì la sua straordinaria carriera.
«Devo tanto ad Achille Minen, figura storica dell’automobilismo friulano. È stato il mio maestro. Da lì presi parte a cronoscalate, rally. Corsi anche in pista, dove vinsi il titolo italiano nel 1982 con la Volkswagen Scirocco. Io, a bordo di una vettura 1.6, battevo i 2 litri. Sono legato anche allo scudetto di gruppo 3 rally nel 1978 con la Porsche 911 Carrera. Mi navigava Campeis, una bella persona e un grande copilota: io dovevo solo guidare, al resto ci pensava lui».
A quale sport è più legato?
«Al rally. Sono la mia espressione, io ero un pilota d’istinto. Dicevo alla macchina: “A entrare (in curva, ndr) ci pensi tu. A uscire mi arrangio io”. Jean mi correggeva sempre le note, in fondo io avevo imparato da solo, rubando qualche consiglio a Minen e all’ingegner Palazzoli. Con quest’ultimo cercai sempre di salire in auto con lui, cambiava perfettamente. Ho sempre cercato di stare vicino a persone più preparate e colte di me».
Com’è stato correre il suo ultimo “Alpi Orientali”, il nuovo rally del Fvg?
«Devo tutto a Lino Acco, anche lui pilota. Si è proposto di darmi la sua Renault Twingo gratis. Voleva farmi questo regalo. Un gesto straordinario, così come quello dell’Aci che mi ha regalato l’iscrizione. In gara mi non ho spinto troppo: avevo paura di toccare e di rovinare la macchina. Sarebbe stato troppo umiliante per me farlo e non arrivare al traguardo. L’ultimo palco in piazza Libertà lo ricorderò per sempre. Ringrazio il sindaco Fontanini per aver riportato il finale in centro: per un pilota è la cosa più esaltante che esista».
Ora la Castelmonte...
«Con l’R5. Andrò alla mia andatura. Alcuni mi chiedono come faccio a correre alla mia età. Fisicamente, a parte gli ultimi anni, sono sempre stato bene avendo cura del mio corpo. Sette anni fa ho scalato lo Zoncolan in bici. Anche questa fu la mia forza: al rally di Napoli vinsi la ps del Monte Faito battendo gente come Tony Fassina perché ero allenato».
Cosa le mancherà?
«Il piacere della guida: per imparare, negli anni ’60, corsi alcune gare con una Fiat 128 stradale a noleggio della Herz. Capii come funzionava davvero un’auto e anche me stesso: per andare forte dovevi pennellare le curve perché mancavano i cavalli. Mi sono divertito, ho avuto tanto dalla vita. E ringrazio la mia famiglia: mi è sempre stata vicino».
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