Diaw, il bomber del Pordenone si racconta: «La nascita di Celeste mi ha cambiato la vita, ora sogno la serie A»

PORDENONE. La storia di “Ciccio” Caputo, suo ex compagno di squadra, come esempio. La partenza dai dilettanti e la voglia di arrivare in alto. Gli obiettivi e i sogni, quelli personali e quelli legati al Pordenone. Ma anche gli episodi di razzismo, la famiglia e la nascita della figlia Celeste, che gli ha cambiato la vita. Davide Diaw, centravanti dei neroverdi, si è raccontato senza veli.
Prelevato pochi mesi fa dal Cittadella per più di 2 milioni di euro, il 29enne di Cividale ha realizzato 9 gol in 16 partite tra i cadetti: le sirene della serie A si sono accese, l’ha detto anche il presidente Lovisa, ed è chiaro che questo fosse il piatto forte della chiacchierata.
È un suo desiderio salire lassù, si percepisce «ma almeno sino a giugno non mi muovo – afferma, per la gioia dei tifosi –. Non sapevo neppure ci fossero queste voci. Il mio presente si chiama Pordenone. E voglio ripagare lo sforzo che ha fatto per acquistarmi».
E pensare che era già stato vicino ai ramarri ai tempi della C...
«È vero. Giocavo con la Virtus Entella, ero in uscita, poi le due società non trovarono l’accordo. Feci il mio percorso e andai a Cittadella. Quindi, la scorsa estate, il ritorno di fiamma. È successo tutto nel giro di pochi giorni. Dopo un anno e mezzo tra i granata, sentivo che era arrivare il momento di cambiare e di iniziare un nuovo percorso».
E ora, a due turni dalla fine del girone d’andata, è a un passo dalla doppia cifra. Ma al di là del profilo realizzativo, che bilancio stila sinora della sua esperienza a Pordenone?
«Sto benissimo. Mi sono anche trasferito qui, in città. Mi sento un calciatore importante e voglio ricambiare la fiducia che il club ha riposto su di me. Sapevo di piacere a Matteo Lovisa (il direttore dell’area tecnica, ndr), ma al contempo ero e sono consapevole del sacrificio fatto dalla società per darmi questa chance. A livello di squadra sono contento, le ultime due vittorie ci hanno dato tanto. Dobbiamo sempre pensare alla salvezza, ma senza porci limiti una volta raggiunta».
Bisogna essere ambiziosi, soprattutto se lei segna con questa continuità: va in gol da cinque gare di fila, se segna con il Venezia raggiunge Ibrahimovic in questa speciale classifica…
«Faccio gli scongiuri del caso, ma ammetto che fa piacere essere accostati a un campione del genere. Personalmente sono soddisfatto e sono legato a tutti i gol realizzati sinora. Il più bello? Quello al Brescia, ma ci tengo a ricordare la rete segnata al Frosinone. È arrivata di testa, il mio punto debole, in cui devo ancora migliorare. Segnando al Vicenza, inoltre, mi ero sbloccato, ma non vivo il digiuno come una malattia. A Cittadella non ho trovato la rete per otto partite di fila. Nel calcio ci può stare, accettarlo fa parte del percorso di maturità».
A proposito, sovviene un’immagine: raduno della Sanvitese per il campionato di serie D 2010-2011. Quanto è cambiato Diaw da quella volta?
«Avevo 18 anni e un carattere particolare, ribelle. Giocavo per divertirmi. Ora sono un’altra persona. Ma è passato anche tanto tempo!».
Chi la conosce bene, sostiene che la sua famiglia e la nascita di Celeste le hanno cambiato la vita.
«Confermo. La mia bambina, assieme alla mia ragazza Vanessa, mi hanno fatto crescere. Ora sono maggiormente consapevole di tutto, ho un altro approccio alle cose, più maturo».
In campo è professionale e determinato. Dicono di lei: “Ha la fame chi è partito dal basso”. Quanto conta la sua voglia di arrivare e il fatto di aver iniziato dai dilettanti?
«Tantissimo. Se non ce l’avessi, sarei un giocatore normale. Sono certo che non la perderò mai perché so quanto ha lavorato per arrivare sino in serie B. Dopo l’infortunio di Tamai, accusato nel 2012, cambiai il mio approccio. Davo per scontato tutto, poi mi accorsi di essere un privilegiato. Anche in serie D. Decisi così di dare tutto me stesso. Ripartii dalla Virtus Corno in Eccellenza: allora la B sembrava impossibile. Invece sono qua».
E la serie A non risulta così lontana: a riguardo le voci circolano…
«Il mio percorso mi ha dimostrato che nulla è impossibile. È certo che voglio provare a salire sino a quando giocherò. Ma di questo se ne parlerà casomai a giugno. Adesso difendo i colori del Pordenone e sono concentrato sui neroverdi. Se sono pronto per un livello superiore? Non lo so, non ho mai militato in serie A, ma ripeto: tutto è possibile. E non nego che mi piacerebbe provare l’avventura nel massimo campionato con i ramarri».
A 29 anni può essere uno degli ultimi treni, anche se ci sono tante storie di calciatori partiti dal basso e arrivati in alto una volta passati i 30. Il suo compagno di squadra Caputo, per esempio.
«Nel calcio spesso si danno etichette: tu sei un giocatore di C, tu di B e così via. Poi arriva uno come Ciccio che sale in A con l’Empoli a più di 30 anni, dimostra di poterci stare e ora è uno dei punti di forza del Sassuolo. Storie così danno forza. Come quella di Junior Messias del Crotone, anche lui partito dall’Eccellenza».
Breve parentesi: il compagno di squadra a cui è più legato e il più forte con cui ha giocato?
«Tra i primi, dico Troiano e Iori, capitani di Entella e Cittadella. Mi hanno dato tanto. Tra i più forti, Caputo e Dany Mota, ora al Monza. Quest’ultimo può avere una carriera di profilo internazionale».
Diaw, l’ultima domanda: c’è il razzismo nel calcio? L’ha subìto sulla sua pelle?
«Sì, dagli spalti ho sentito cose bruttissime, da condannare. Tifosi che hanno mancato di rispetto non soltanto a me, ma a tutti. Bisogna però distinguere questo da ciò che avviene in campo, che spesso è figlio di nervosismo, poca lucidità e tensione. È diverso, per quanto sia da condannare». —
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