Da Ceresetto ai trionfi nel deserto: il Friuli premia Edi Orioli, re della Dakar

Il pilota di Ceresetto di Martignacco, trionfatore di 4 Dakar con tre moto diverse, ritirerà giovedì, nell’ambito del festival di Majano, il premio Pro Majano riservato a un’eccellenza friulana nel mondo

Alberto Bertolotto
Edi Orioli ha trionfato per quattro volte nella Parigi-Dakar delle moto: qui festeggia la vittoria del 1996 su Yamaha
Edi Orioli ha trionfato per quattro volte nella Parigi-Dakar delle moto: qui festeggia la vittoria del 1996 su Yamaha

MARTIGNACCO. Non ama i riflettori Edi Orioli, anzi. Con loro ci lotta costantemente, perché su di lui non si spengono mai. Sarebbe strano il contrario, perché è una leggenda del motociclismo italiano.

Il pilota di Ceresetto di Martignacco, classe 1962, da tempo stimato imprenditore, ha concesso uno strappo alla regola alla sua riservatezza e giovedì, nell’ambito del festival di Majano, ritirerà il premio Pro Majano riservato a un’eccellenza friulana nel mondo (dalle 19.30 in piazza Italia).

Lui, il nome del territorio, l’ha tenuto alto specialmente tra Parigi e Dakar, quando il celebre rally raid si correva tra la capitale della Francia e quella del Senegal.

Quattro successi su due ruote nel suo curriculum, conquistati prima con Honda (1988), poi con Cagiva (1990 e 1994) e infine con Yamaha (1996). «Tutte affermazioni indimenticabili – riflette –, ma se devo indicare la vittoria a cui sono più legato, dico quella del 1990».

Partiamo da qui, Orioli. Quale il motivo per cui tiene particolarmente al trionfo ottenuto nel 1990?

«Perché mi consacrò. Certo, quello del 1988, sulla Rd03 dell’Honda, fu unico, perché mi fece conoscere al mondo intero. E allora fui il primo italiano a salire sul gradino più alto del podio di Dakar. Tuttavia due anni più tardi misi a segno il bis e lo feci con una moto italiana. Porterò a Majano proprio l’esemplare usato nel deserto nel 1990».

Come li ha catalogati nella sua memoria, invece, gli altri due successi nella regina delle competizioni rallystiche?

«Come quelli della conferma. Senza dimenticare però che, negli anni, dal 1986 in poi, mi classificai sempre nella top dieci. Il peggior risultato fu l’ottavo posto su Cagiva nel 1991. In tutto ho preso parte a 19 edizioni della Dakar, contando anche le partecipazioni con le auto».

Una corsa a cui rimarrà sempre associato il suo nome, anche se da tempo è totalmente diversa. Non si tiene più tra la Francia e il Senegal, da quattro anni è in Arabia Saudita ed è molto più corta rispetto a quando partecipava lei.

«Mi fa specie quando ora, i piloti che prendono parte alla Dakar, pensano di aver partecipato alla Parigi-Dakar. Non è così. Paragonata a quella di un tempo, l’attuale è come arrivare in cima all’Everest dopo essere stati elitrasportati a 5.000 metri e aver scalato dunque soltanto l’ultima parte del monte. I chilometri che ora disputano i piloti sono pochi, mentre la media di ogni tappa degli anni Ottanta e Novanta era di 650».

Ora la corsa è più una performance legata velocità, mentre un tempo venivano esaltate maggiormente altre qualità, come quella della navigazione. Orioli va ancora in moto però, è corretto?

«Certo. Viaggio su una Bmw Gs, che apprezzo molto. Ho collaborato anche con Mv Agusta in occasione del modello Lucky Explorer 9.5, ispirato alla Cagiva Elephant con cui vinsi la Dakar. Ne firmerò 500. La passione legata al motociclismo ci sarà sempre, è inevitabile».

Ai riflettori, come detto, sfugge, tanto che più volte preferisce non essere coinvolto quando si avvicina una nuova edizione della Dakar. Come mai ha detto “sì” all’organizzazione del premio Pro Majano?

«Perché non si può dire “no” ai vicini di casa. Ci tenevo. Ed è una partecipazione che rinsalda il rapporto col territorio, sempre stato forte anche quando giravo il mondo. Mi è capitato di vedere i Fogolar Furlan di New York, Tokyo, Los Angeles… Magnifici. E poi, a Ceresetto di Martignacco, dove sono nato e cresciuto, mi sono sbucciato le ginocchia in bicicletta, ho imparato a stare in equilibrio sulle due ruote».

A proposito, neppure dieci giorni fa, grazie al Moto Club Tagliamento e alla scuderia Bad Boys di Buja, si è svolta la finale dei campionati italiani di mini-enduro. Che consigli si sente di dare ai giovani piloti?

«Posso dire che dalle corse impari tanto. E io stesso ho imparato tanto nel corso della mia carriera, specialmente la sensibilità nella guida, che è una qualità importante nella vita di tutti i giorni. Grazie all’agonismo ho ricavato una tale sensibilità che ora, quando conduco un mezzo, mi sento sempre in sicurezza. E ricordiamoci che in moto l’unico contatto con la superficie è rappresentato dalle due ruote, niente di più. Per il resto, legato ai giovani, posso dire che un talento nasce perché… deve nascere. Le forzature non mi sono mai piaciute».

C’è un pilota invece che, negli ultimi anni, ha esaltato un grande campione come lei?

«Sì, direi senza dubbio Valentino Rossi. Ho fatto il tifo per lui. Un vero e proprio talento, nato che era già una stella. Davvero troppo forte».

Ultima domanda: si è celebrata a inizio luglio l’edizione del trentennale dell’Italian Baja, gara pordenonese la cui prima edizione del 1993 tra le auto fu vinta da lei assieme a Maurizio Dominella.

«Dovevo esserci alla serata di gala, ma ero impegnato col matrimonio di mia figlia. È un bene che nel nostro territorio si tengano ancora eventi di questo tipo».

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