Coronavirus, parla Gianpaolo Ormezzano: «Ne usciremo più forti e persone migliori»

Tra città deserte e 60 anni di ricordi «Lo stop del calcio? Rovinato dai soldi, pensavo non si fermasse»

Direttore, tutto bene nell’isolamento da coronavirus?

«Si a parte questo fastidio alle corde vocali che non mi ha lasciato dormire tutta la notte. Un po’ di latte col miele e via. No, il virus non c’entra».Gianpaolo Ormezzano, 84 anni, anche se lui se ne dà già 85 (li compirà solo il 17 settembre), il decano dei giornalisti sportivi italiani. Il collezionista di Olimpiadi (25! Grida al telefono, record mondiale, temo imbattibile dice apparantemente con autoironia ma, sotto sotto, con grande orgoglio) iniziò con l’agonia di Coppi, proseguì con l’impresa dell’amico Berruti a Roma ’60, poi calcio, Merckx, Gimondi, Mohammed Alì, il Mundial, Tomba, Platini, l’amato Toro e... questo maledetto virus che affronta con realismo, lucidità, ironia, occhio alla storia, dando un po’ di luce a giorni che facciamo fatica a illuminare.

Più che un virus sembra una guerra…

«Lasci stare le guerre, quelle sono altra cosa. Vero è che con questo coronavirus ho preso una cantonata sublime: pensavo fosse una cosa da nulla, invece si sta rivelando serissima. Forse perché ancora, a 85 anni, vedo lati stupendi in tutte le cose, anche le più brutte, come questa».

Cambierà questo virus la storia?

«Quella intima di tutti noi sicuramente, ma solo se faremo le nostre valutazioni. I cambiamenti più profondi della storia non sono sanitari né politici, ma economici. Ecco, nonostante il governo argentino mi abbia portato via i risparmi di una vita, vivo con una discreta pensione e ho imparato ad apprezzare il non valore del denaro da un amico prete di origine cadorina, quindi non lontano da voi, che si chiama Luigi Ciotti».

Dal balcone come vede la sua Torino al tempo del coronavirus?

«Una città deserta, ma con molte bandiere di speranza alle finestre. Torino è una città composta. Ho la fortuna che la mia prima figlia Olivia sia medico in prima linea, con “Medici senza frontiere”, tra i migranti di Castelvolturno. Insomma, andiamo avanti con coraggio, voi friulani ne sapete qualcosa».

Ormezzano, il virus ha fermato pure le “sue” Olimpiadi. Se l’aspettava?

«Non si poteva fare altrimenti. Ho seguito 25 edizioni dei Giochi e tanti Mondiali, qualcosa del genere non era mai accaduto. Naturalmente ci sono ragioni di forza maggiore, mi piacerebbe che tra un anno non venisse fuori che, tra le motivazioni del rinvio, ci fosse anche quella di voler fare più soldi. Da un po’ ho smesso di capire lo sport come lo intendevamo io e il mio amico Livio Berruti. Ormai c’è una profonda dicotomia tra lo sport vero, quello del signor Brambilla per intenderci, e quello dominato dagli interessi delle multinazionali o dalla politica, che mi pare tornata nello sport, ammesso che ne fosse mai uscita.

A proposito di Berruti, vi sentite spesso con il campione di Roma ’60?

«Come no, con questo isolamento al telefono... E quasi in ogni chiamata emergono nuovi particolari di quel viaggio di ritorno da Roma a Torino in auto. Io, lui e la medaglia. Il 3 settembre saranno passati 60 anni dal trionfo di Livio nei 200 metri all’Olimpico. Sono ottimista per natura, c’incontreremo per una grande festa. Almeno questa è la visione di un 85enne, con 3 figli, 8 nipoti, che ha avuto la fortuna di fare il mestiere più bello del mondo».

La fiaccola però non si spegnerà…

«Sì. È un simbolo, ma se con quel gas possono riscaldare qualche famiglia in più la spengano pure».

Com’era Tokyo nel 1964, nella precedente edizione giapponese delle Olimpiadi?

«Ci andai in Giappone per un mese già nel 1962, poi tornai l’anno dopo per le pre-olimpiche, quindi nel 1964: ricordo una città “bassa”, senza palazzoni, con una sola lingua, il giapponese, l’inglese non esisteva nemmeno nei segnali stradali. Una città meravigliosa. Ora là è tutto algido, freddo, perfetto, preciso. I giapponesi sono gente in gamba, ma non mi hanno sedotto».

Non ha cambiato idea nemmeno nella versione invernale a Sapporo 1972?

«No, li ammiro ma non li reggo. Anche se ho felicemente un’automobile giapponese, che con la sua indistruttibilità ha causato la fine dell’amicizia col meccanico che non mi vede più».

Anche il calcio si è fermato.

«Davvero? Pensavo non si sarebbe fermato mai a causa degli interessi che ci stanno dietro. Penso sempre più spesso alle Cronache di Bustos Domecq di Jorge Luis Borges, il più grande scrittore del mondo che però non ha vinto il Nobel, e Adolfo Bioy Casares, quando scopre casualmente, da uno stadio ormai in disuso, che il campionato è fasullo, le partite taroccate così come le riprese tv».

Cosa farebbe della serie A sospesa a 13 giornate dalla fine?

«Intanto meno male che l’hanno fermata, altrimenti il mio Torino finiva in serie B. Poi (sorride,ndr) proverei ad assegnare il titolo proprio ai granata o comunque lo toglierei alla Juve, chiedendo scusa al mio grande amico Boniperti. Sempre sia vero che giochino partite reali (altra risata, ma meno convinta ndr)».

Insomma, questo calcio non le piace. Si spieghi meglio.

«Mondiali 1994 negli Stati Uniti. C’è anche l’Iran. Imbarazzo degli ayatollah perché in tv compaiono sugli spalti raffiche di ragazze scosciate. Loro, aiutati dalle diavolerie del satellite, le sostituiscono con stacchi artefatti pieni di tifoseria cupa e austera. Ho reso l’idea?».

Anche il “suo” ciclismo si è fermato… L’altro giorno non si è corsa la Milano-Sanremo.

«Vado controcorrente: la Sanremo mi è sempre sembrata una corsa piatta, scontata, l’altro giorno poi è stato patetico vedere uno come Nibali, che ammiro tantissimo, affrontare da casa gli ultimi km della Classicissima sui rulli. No, preferisco il ciclismo-lotteria, quello degli imprevisti a raffica della Roubaix o delle classiche. Della Sanremo ricordo le due edizioni seguite in moto e finite con i vestiti sporchi della pipì nebulizzata fatta in corsa dai corridori».

Se n’è andato anche Gianni Mura.

«Fece il suo primo Giro, credo fosse il 1967, in auto con me. Mi credevo grande suiveur, lui mi mortificò dalle vostre parti con una perfetta lezione sul metodo chardonnay. Gli presentai io Paola, sua moglie. Era l’addetta stampa della Marcialonga della val di Fiemme, la conquistò “crivellandola” con una poesia in francese. Maestro di anagrammi e poesie è stato il più etico tra i giornalisti che abbia mai conosciuto. Mi chiamava “Paolesse”, come quella volta a Pordenonelegge, qualche anno fa, quando me lo gridò dal palco. Sono pieno di ricordi legati alla sua moralità, non vedo l’ora che finisca tutto questo per andare ad abbracciare Paola e ricordarlo insieme».

Mura se n’è andato lo stesso giorno di Pietro Mennea.

«Che scontri feroci con Pietro, come quando a Monaco ’72 voleva ritirarsi, ebbe uno screzio con Primo Nebiolo, grandissimo presidente della Iaaf, e io gli feci notare che in fondo era il primo tra bianchi europei e cattolici. Sa, io ero un “berrutiano” di ferro. Ci ritrovammo a Seul 1988, la sua ultima Olimpiade, e ci abbracciammo».

Direttore…

«Non mi chiami così, il periodo di direzione a Tuttosport è stato tragico, io sono fatto per altro».

Insomma, in conclusione, parliamo di tre grandi friulani...

«Bearzot. Cuore granata. Campionato 1975/1976, la Juve perde a Milano, il Torino di Pulici e Sala batte l’Inter, esco dallo stadio in fretta per andare a fare il giornale, incontro Enzo, commissario tecnico azzurro da pochi mesi, mi dice: “Beato te che puoi piangere io, io da ct non lo posso fare”. E poi quella notte del 1982 sul prato del Bernabeu…».

Racconti.

«Seguivo Brasile e Argentina, mi dirottarono sull’Italia solo per la semifinale di Barcellona con la Polonia. C’era il silenzio stampa. Alla termine della finale sul prato del Bernabeu mi gridò: “Disgraziato dov’eri finora?” E chi se lo dimenticherà mai».

Dino Zoff?

«L’altro giorno l’ho chiamato come sempre per gli auguri di compleanno. A mezzanotte, così non può dire che mi dimentico. Quando compì 40 anni gli feci un pezzo su Famiglia Cristiana, lui, che per spiaccicare sillabe come sapete ce ne mette, mi chiamò dicendo: “Ti devo ringraziare, mio papà contadino friulano legge solo l’Unità e Famiglia Cristiana, non mi aveva mai creduto quando gli dicevo che guadagno bene con il calcio, finché non ha letto il tuo articolo”. Il papà me l’ha presentato poi in occasione di una tappa del Giro d’Italia a Gorizia, credo fosse il 1983».

I fratelli Di Centa?

«Io, tifoso di Stefania Belmondo, anche per le comuni origini cuneesi, devo riconoscere che Manuela dalla Carnia, oltre al talento, ha portato la bellezza e la femminilità in quella disciplina, cambiandola. Il suo magnifico sorriso abbagliò anche le Olimpiadi di Torino 2006 quando Giorgio conquistò due ori formidabili».

Non possiamo non parlare di Bruno Pizzul. Le sue telecronache pacate, rispetto a quelle urlate di adesso, le mancano?

«Beh, ora non le sento perché sono sordo! Bruno è un grande professionista e anche lui, dopo la vostra Udinese, ha un po’ il cuore Granata».

Non le chiediamo l’impresa sportiva a cui è più affezionato. C’è Berruti.

«Chiaro, poi c’è Fausto Coppi, il più grande. La figlia Marina è una mia grande amica anche se è astemia e juventina. Ma come dimenticare Bartali? Sa chi era un altro insospettabile astemio? Niels Liedholm, anche se la moglie produceva grandi vini. Vince lui la classifica dell’accoppiata allenatore-giocatore di successo».

Grazie per la chiacchierata. Un’ultima curiosità, come passa il resto della la giornata Ormezzano da “recluso”?

«Oggi mi diverto: devo raccontare per le pagine speciali del Corriere di Juve-Toro 2-3 del 1983 con tre gol granata nel finale. Una goduria. Ho sempre detto a Boniperti che se i tre goal fossero stati anche irregolari sarebbe stato ancora meglio. W noi».

Segue una risata fragorosa. Alle corde vocali del Maestro, il latte e miele hanno fatto bene. —

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