Coppi, una fuga infinita: ecco perché l’Airone andrà sempre di moda

UDINE. «Un omino con le ruote contro tutto il mondo, un omino con le ruote contro l’Izoard», canta Gino Paoli per onorare lui, Fausto Coppi, il Campionissimo nato cento anni fa, il 15 settembre 1919, morto troppo presto, il 2 gennaio 1960, ed entrato direttamente nel mito.
Per le leggendarie imprese su due ruote, i duelli con Gino Bartali e gli altri eroi del pedale, che aiutarono una nazione a risollevarsi dalla guerra. Sei grandi personaggi del ciclismo lo ricordano con parole d’amore per una figura di sportivo sempre attuale nonostante l’incedere del tempo.
«Cinque volte qui in Italia poi due volte in Francia...». Già, il Tour de France. Prima di lui, tra gli italiani, lo vinsero Bottecchia e Bartali. Dopo Nencini, Gimondi, Pantani e Vincenzo Nibali. Il vincitore 2014 non ha dubbi: «È stato uno dei più grandi corridori di sempre.
Quando guardo i suoi vecchi filmati sembra un altro ciclismo. E forse lo è, anche se la fatica è rimasta la stessa – spiega lo Squalo –. Coppi mi colpisce per il suo coraggio e il suo innato talento. Ha vinto corse fantastiche dimostrando di essere superiore a tutti. Non c’è solo la Cuneo-Pinerolo, penso al Mondiale di Lugano con l’attacco sulla Crespera».
Superiore a tutti. Nonostante 5 anni persi per la guerra, lui che era nato in un paesino (da visitare) sulle colline sopra Novi Ligure, che da quest’anno si chiama Castellania Coppi. Figlio di Piero, scampato alle trincee del Carso, e mamma Angiolina.
Poi fu garzone d’un salumiere, ciclista promettente, fenomeno capace di battere il capitano Bartali e vincere il Giro 1940 a vent’anni. Primatista dell’ora, soldato in Africa, prigioniero. Per lui, al ritorno a Napoli, fu organizzata una gara di solidarietà per procurargli una bici per tornare a casa.
E poi la Sanremo del 1946, evitando macerie, strade e ponti bombardati, con Nicolò Carosio alla radio che disse: “Primo Fausto Coppi… e in attesa degli altri concorrenti trasmettiamo musica da ballo”. Il terzo Giro nel 1949 con quella Cuneo-Pinerolo attorno alla quale ruota il mito.
«Viene su dalla fatica e dalle strade bianche, la fatica muta e bianca che non cambia mai, e va su... ancora», canta Paoli. Mauro Vegni, da dieci anni direttore del Giro d’Italia, ricorda Coppi con trasporto. Non può non essere cosi. «Coppi è il Giro, che è così grazie a Fausto, come a Felice Gimondi e Marco Pantani, per ricordare gli atleti più amati», dice.
«Il Campionissimo è un’icona dello sport, il ciclista per antonomasia, l’uomo solo al comando». Come il 10 giugno 1949, 35 giorni dopo la tragedia di Superga. Maddalena, Vars, Izoard, Monginevro e Sestriere. Fuga da leggenda, nonostante 5 forature, Bartali a 11 minuti.
«È l’impresa della storia del Giro, abbiamo provato diverse volte a riproporre quei 254 km, ma il meteo non ci ha mai dato una mano. Onoriamo Coppi con la cima più alta a lui dedicata. Lui è il mito, sempre attuale».
Cuneo-Pinerolo: dopo la Maddalena Pierre Chany, l’inviato dell’Equipe che seguiva in auto il Campionissimo (che invidia!), giornale che in Francia organizza il Tour, entrò in un ristorante. Poi scrisse: «Nella poltiglia del Maddalena, l’ho visto (Coppi, ndr) venire via dagli altri. Sfangava, quasi sollevando la bicicletta.
Lo accompagnai fino a un paesino francese, mi pare Barcelonette. Lo lasciai andare. Entrai in una trattoria. Ordinai un pasto completo dagli “hors-d’oeuvre al caffe”. Mangiai con tempi da buongustaio. Fumai una sigaretta. Chiesi il conto. Pagai. Uscii. Stava passando il sesto».
«Ho lavorato per vent’anni con Pierre, è lui, molto amico del campione, che me lo raccontò». Philippe Brunel da anni è l’inviato di riferimento dell’Equipe. Sentitelo: «Coppi è il campione che con le sue imprese ha riabilitato gli italiani che avevano dichiarato guerra ai francesi a tradimento.
Era l’uomo in fuga, mai ripreso. Era il mito. Bobet corse una vita per imitarlo. Ai due campioni l’Equipe ha dedicato una lapide alla Casse Deserte sull’Izoard. Anquetil no, era diverso: corse per superarne il mito. Poi Fausto fu grande pure fuori dal ciclismo, in fuga anche lì, perché la bici è metafora della vita, scegliendo di amare la Dama Bianca, sfidando l’Italia conformista.
Era avanti di trent’anni. Fu Chany a dare a Giulia Occhini quel soprannome dopo averla vista accanto a lui sul podio della tappa di Saint Moritz al Giro 1954. Sì, Coppi è il mito, vicino a lui tra i ciclisti italiani della storia metto Bartali, dietro gli altri».
«Poi lassù, contro il cielo blu, con la neve che ti sale intorno...». Doppietta Giro-Tour, dopo il 1949, anche nel 1952, un anno dopo la morte del fratello Serse. Il Giro dello Stelvio nel 1953, il Mondiale, quello che piace tanto a Nibali, il declino, la maledetta battuta di caccia in Africa, la malaria, la morte. Quella marea umana al funerale.
Elia Viviani, campione olimpico ed europeo, altro faro dell’Italbici, è nato nel 1989, 29 anni dopo la morte di Coppi. Eppure... «Ho imparato a conoscerlo da racconti, documentari e libri, mi affascinano quelle imprese d’altri tempi, le strade bianche, le forature sempre dietro l’angolo.
Avrei voluto correre in quegli anni. E poi la mitica foto del passaggio della borraccia, il rispetto per l’avversario: quella foto va fatta vedere a tutti i bambini che iniziano a pedalare». Coppi vive, all’infinito. Non c’è nulla da fare. —
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