Beppe Conti: «Quel 1972 di Merckx, Moser, Saronni e... Marco»

UDINE. «Bartali? Veniva al Giro, faceva il giornalista. Ma il giornalista vero, non come fanno adesso molti campioni che si fanno scrivere i pezzi».
Inizia così la chiacchierata con Beppe Conti, col suo “100 storie del Giro” in uscita il 12 maggio, obbligatoriamente nella decina di libri sul ciclismo presto in edicola con il nostro giornale. Esordi alla Gazzetta dello Sport, una vita a Tuttosport e ora opinionista Rai, Conti è una sorta di “Bibbia” delle due ruote. Snocciola aneddoti che è un piacere, ci parleresti per ore di fila. È un perfetto testimonial dell’iniziativa Gedi.
Conti, torniamo a Bartali.
«Prendeva appunti, scriveva il pezzo su un foglio e dettava l’articolo ai dimafoni. Ci sapeva fare, difendeva i corridori e, naturalmente, vedeva la corsa meglio di chiunque altro. Un giorno mi disse: “Tu saresti il più bravo di tutti, perché hai corso in bici, conosci la materia, ma hai un grande difetto: quando parli di me e Fausto documentati meglio, perché sei dalla parte di Coppi”».
Era vero?
«Si ricordava di quando scrissi che il francese Geminiani imputava il ritiro della nazionale italiana dal Tour del 1950 a una decisione di Bartali, geloso di una possibile vittoria di Magni. Non l’avessi mai scritto!».
Perché Coppi è stato più forte di Merckx?
«Nel ciclismo conta l’impresa, Coppi realizzava imprese. Sempre Geminiani fu l’ultimo direttore di Eddy nel 1977. Un giorno il campione gli chiese cosa Coppi avesse più di lui. Il francese, che si salvò dalla malaria fatale a Fausto, gli rispose che l’Airone aveva vinto anche due Mondiali su pista nell’inseguimento. Coppi vinceva in pista e poi sull’Alpe d’Huez, insomma Ganna e Bernal nello stesso atleta».
La sua impresa più bella?
«Giro d’Italia, la cavalcata solitaria nella Cuneo-Pinerolo, andando in fuga già sulla Maddalena. Come ricorda il collega Claudio Gregori, Coppi fece dieci fughe vincenti da oltre cento km, l’unidicesima di 100 tondi tondi».
Che maggio sarà senza la corsa rosa?
«Vuoto. Per 43 anni di fila in tutti i mesi di maggio ho seguito il Giro. La sensazione che provo è di smarrimento, l’augurio è che presto si torni a fare le corse».
È fiducioso?
«Sono cauto, molto cauto sin da febbraio. Vede, mia figlia Elena è medico anestesista rianimatore agli Spedali di Brescia, giorno e notte da settimane nei reparti Covid 19, mi racconta di situazioni drammatiche. Stai bene e in tre giorni ti ritrovi in rianimazione. Ora la salute e la sicurezza delle persone sono la cosa più importante. Avrebbero dovuto fermare prima le corse: la Parigi-Niza a inizio marzo in quelle condizioni e senza pubblico sulle strade, il sale del ciclismo, è stata una cosa brutta».
Quando si ripartirà?
«Ora non lo si può ancora dire, può darsi che la situazione migliori e si possa correre da fine luglio, come può darsi che alla fine si riesca a fare solo il Giro in ottobre. Immaginate lo show con tutti i big? E poi si correra fino a novembre, un tempo il Trofeo Baracchi chiudeva la stagione in novembre».
Un ricordo del primo Giro?
«Non posso scordare nel 1977 l’arrivo di tappa tra le macerie di Gemona, in mezzo ai friulani che ci applaudivano e volevano risollevarsi con forza e senza tante chiacchiere dalla tragedia del terremoto».
La “sua” tappa del Tour?
«Nel 1992 con Gianfranco Josti seguii in auto la cavalcata di Chiappucci. Sull’Iseran lasciò i compagni di fuga, fu pure maglia gialla virtuale con 7’ su Indurain, sentì dagli altoparlanti delle moto che lo inseguivano Bugno con Miguelon, si imbufalì, fece le discese a tutta, arrivò al Sestriere stremato tra due ali di folla. All’arrivo Umberto Agnelli mi confessò che non aveva mai visto tanta gente lassù».
E Pantani sul Galibier?
«Spettacolare. Lasciamo riposare Marco in pace: più grande di tutti in bici, quanto fragile nella vita. Non credo al complotto di Campiglio, ci fu un errore nel tarare le macchinette che si usavano per tenere d’occhio l’ematocrito in quelle folli stagioni».
Moser e Saronni?
«La più bella rivalità del ciclismo, superiore a quella tra Coppi e Bartali. Si punzecchiavano, uno vinceva la Roubaix, l’altro la Freccia e diceva che poi avrebbe vinto il Giro che il trentino si poteva scordare. La folla si divideva, invadeva le strade, gli sponsor gongolavano. Ero moseriano. Ironia della sorte: oggi l’altro mio figlio Stefano fa il massaggiatore all’Uae, la squadra di Saronni».
L’anno del ciclismo?
«Il 1972 di Merckx. Vinse tutto, fece vincere il Mondiale a Basso andando a prendere Bitossi e, invece di andare in vacanza, volò in Messico a battere il record dell’ora. Eppure, come poi rivelai, con la miocardite che aveva ora quel Cannibale non avrebbe neanche ottenuto l’idoneità agonistica».
Ma Gimondi ogni tanto...
«Felice lo batté prima, aspettò che passasse la buriana, e vinse ancora quando Merckx si placò. Sarà un maggio senza Giro. E quanto ci mancherà anche Felice». —
Riproduzione riservata © Messaggero Veneto