Abete e i dilettanti: «Un mondo di passione, la riforma lo valorizzi»

Il presidente della Lega dilettanti al Messaggero Veneto. «Le scommesse dei calciatori? Paghino
gli errori, ma poi aiutiamoli a uscirne»
Antonio Simeoli
Giancarlo Abete, 73 anni, presidente della Lega Nazionale dilettanti al Messaggero Veneto
Giancarlo Abete, 73 anni, presidente della Lega Nazionale dilettanti al Messaggero Veneto

UDINE. «Io e il calcio? Ero bambino, metà anni ’50, giravo a Benevento negli uffici dell’azienda tipografica di famiglia e cominciai a collegare il pallone con la squadra, cui papà Antonio aveva dato il nome A.B.E.T.E. Il 2 agosto 1959 nacque la Lega nazionale dilettanti, la nostra fu la prima squadra a vincere la Prima categoria».

Giancarlo Abete, 73 anni, oltre un decennio da parlamentale nella Democrazia cristiana, ex presidente della Federcalcio, unico presidente (e tra i pochissimi italiani in generale a farlo) a dimettersi dopo il fallimento mondiale degli azzurri in Brasile nel 2014 (segnatevelo), si gusta metro dopo metro la visita alla redazione del Messaggero Veneto.

«Perché io tra stamperie, tipografie, giornali ci sono cresciuto», dice con accanto Ermes Canciani, presidente del Comitato Fvg della Figc, uno dei suoi fedelissimi.

Presidente ma lei ha mai giocato a pallone?

«(risata ndr) Certo, dal 1979 al 1992 sono stato parlamentare della Democrazia Cristiana e quindi giocavo nella nazionale di Montecitorio. Ala sinistra, mancino, noi e il Pci avevamo una fortuna: eravamo in tanti e così c’erano anche dei giovani da schierare. Ricordo le sfide con Carlo Sangalli, Gianfranco Fini, Francesco Rutelli. Ci allenavamo alla Cecchignola. Ci siamo divertiti».

Il suo idolo nel calcio?

«Da juventino, anche se poi da presidente federale la dialettica con la Juve è stata, diciamo così ,piuttosto movimentata, dico John Charles, il gigante buono».

Da presidente della Lega nazionale dilettanti quindi è tornato alle origini?

«No, le origini non le ho mai perse. In Figc sono stato presidente del settore tecnico, vicepresidente e poi numero uno: la Federcalcio ha un radicamento sul territorio incredibile grazie ai dilettanti».

Come lo descriverebbe il mondo dei dilettanti?

«Un universo governato dalla passione dove l’interesse per chi investe è di non rimetterci troppo. Insomma, l’investimento dei presidenti deve essere compatibile con le proprie possibilità. Ci deve essere un equilibrio, o diciamo, ci dovrebbe essere».

E il momento è cruciale con la riforma dello sport: a che punto siamo?

«È una riforma epocale. Il nostro compito è quello di intercettare le preoccupazioni e le sensibilità dei dirigenti. Il rischio è di arrivare a una burocratizzazione che faccia perdere entusiasmo al movimento. Dobbiamo verificare che le regole siano compatibili».

Quali sono i rischi della riforma?

«Ad esempio quello che le società vengano concentrate a vantaggio di quelle più strutturate o nei centri più grandi, il tutto in un Paese senza crescita demografica dove da anni la Lega dilettanti sta cercando di aiutare le piccole società a sopravvivere, anche esentando le nuove dal pagamento delle tasse di iscrizione alla Terza categoria o, dove non c’è, alla Seconda. Insomma, dobbiamo evitare che le società meno strutturate stacchino la spina».

Come si fa?

«Con una applicazione intelligente delle norme, rafforzando il rapporto con il territorio, sostenendo le realtà più piccole e trasferendo valori, la nostra prima, grande, mission. Il rapporto col Governo e il ministro dello sport Abodi è costante, la riforma è una pagina tutta da scrivere, che apre un nuovo mercato, anche se è un termine che non mi piace usare.

Essendo aumentate le incombenze per le società, infatti, si apre un mondo professionale nuovo. In queste settimane abbiamo già registrato in Lega oltre 20 mila contratti di lavoro al di sotto la Serie D».

Il vincolo sportivo destinato a scomparire vi preoccupa?

«Sì, perché il premio di formazione per i giovani calciatori reintrodotto dal 4 agosto non dà gli stessi introiti per le società che lavorano sui settori giovanili. Insomma, non compensa lo sforzo fatto per crescere i talenti.

Anche qui sarà fondamentale il dialogo col Governo per modificare la norma, altrimenti il rischio è che le società non investano più sui vivai e la cosa non farebbe bene al nostro calcio che, peraltro, da oltre ormai dieci anni è fuori dai Mondial e non sta certo vivendo un grande momento».

Ha parlato di passione, di calcio come presidio allo spopolamento. È tornato in Friuli anche per festeggiare oggi i 70 anni del campionato carnico...

«Che è un vero e proprio miracolo sportivo: l’Italia è il paese degli 8 mila comuni, la Lega Nazionale Dilettanti punta a essere presente in tutti i comuni con una squadra giovanile o amatoriale. E le veenti leghe dilettanti in Italia, tra cui quella del Fvg, e c’è qui accanto a me il presidente Canciani che ringrazio, stanno facendo un lavoro fondamentale».

Abete, cosa vuole dire a quei presidenti che investono denari su denari per le piccole realtà?

«Custodisco ancora i conti di quanto investiva nel calcio mio padre Antonio, conservo i tesseramenti, le coppe vinte. La visibilità e la comunicazione che danno il calcio sono enormi, il pallone in Italia vale miliardi di Pil, eppure è la passione che trasmette a non avere prezzo».

Lei, juventino, ha citato Charles. E Zoff?

«Oltre a essere il simbolo del Mundial 1982, Dino è un esempio di serietà professionale, di rispetto dei valori, dell’essenziale, in un mondo in cui l’essenzialità troppo spesso non va di moda».

Essenzialità lei dice. Che effetto le fa allora i calciatori che scommettono, addirittura ludopatici?

«Intanto penso che non essere il presidente della Figc adesso sia una buona cosa (sorriso amaro ndr). Poi dico che in tutti gli ambienti, dalla politica in giù, c’è chi sbaglia. Ora pare di capire che il fenomeno sia per fortuna circoscritto.

Speriamo sia davvero così. I giocatori devono pagare per gli errori fatti, ma quei ragazzi poi devono essere anche recuperati. Nello sport se arrivano le sconfitta, poi si torna subito a giocare per rifarsi. Non a caso abbiamo in giro per l’Italia diverse squadre di carcerati che partecipano ai campionati dilettanti o di calcio a 5».

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