A Wembley l’ultimo atto della Samp di Zanutta: «Dovevamo vincere noi»

l’intervista
Adesso è il mister del Porpetto, in Terza categoria. Ma, prima di tutto, Giorgio Zanutta, fratello di Michele, gloria di Reggiana e Pescara, era il giocatore della Sampdoria che, il 20 maggio 1992, affrontò la finale della Coppa dei Campioni. Stadio di Wembley, Londra: il difensore di Carlino, classe 1973, era tra i convocati dei genovesi per la supersfida contro il Barcellona. Terminò 1-0 a favore dei catalani, con la punizione di Koeman nel secondo tempo supplementare. «Ripenso ancora a quella gara: dovevamo vincere, poi sarei andato a lavorare», ricorda sorridendo.
Zanutta, facciamo un passo indietro. Come arrivò alla Sampdoria?
«Mi acquistò dall’Udinese nel 1991. Debuttai in serie B, in prima squadra, il 9 giugno di quell’anno a Messina. Mi volevano anche Milan e Roma, la spuntarono i blucerchiati. Firmai un quadriennale con la squadra che aveva appena vinto lo scudetto. Con me venne anche Alessandro Orlando».
A Cagliari, inizio di campionato 1991-1992, la prima panchina. Poi arrivarono quelle di Coppa dei Campioni.
«Ci andai con il Rosenborg nei sedicesimi e con il Panathinaikos nell’ultima gara della fase a gruppi, al Ferraris. Stavo per entrare a pochi istanti dalla fine, ma mister Boskov aspettò troppo e l’arbitro fischiò la fine».
Londra il passo successivo. E lei venne convocato: partenza il giorno prima del match?
«Sì, lasciammo Genova alla vigilia della gara. Affrontammo la finale come fosse una partita “normale”. Andammo in aeroporto verso mezzogiorno, atterraggio a Londra e, dopo il passaggio in albergo, andammo allo stadio per vedere il campo e per sostenere la rifinitura. Prima di noi il Barcellona. Ho un’immagine ancora stampata in testa: l’erba di Wembley. Mai visto una cosa del genere. Era un velluto. La palla schizzava via veloce».
Sapeva di non essere tra i 16 della lista?
«Sì. E non speravo che qualcuno si facesse male, anzi. Volevo solo dare il mio contributo, cercai di aiutare gli altri. Al tempo si poteva seguire lo stesso la partita vicino alla squadra, in un’altra panchina. Con me c’erano proprio Orlando e Ivano Bonetti».
Il palo di Stoichkov, Vialli che sfiora il gol, i supplementari...
«C’era fiducia. Sapevamo di dover sbagliare il meno possibile per arrivare poi ai rigori, dove Pagliuca avrebbe potuto essere decisivo. Mi ricordo che dopo il 90’ massaggiai Vierchowod, avevo voglia di aiutare. Poi l’arbitro fischiò quella punizione, concessa per un fallo inesistente di Invernizzi su Eusebio. Calciò Koeman, la palla passò tra Mannini e Pari e Gianluca (Pagluica, ndr) non riuscì a prenderla».
Ripensa ancora a quella gara?
«Ogni tanto. Mi dispiaceva per il gruppo storico. Quella sera dovevamo vincere. Poi sarei andato a lavorare tranquillamente. Peccato, c’era tanta delusione, il viaggio verso Genova del giorno dopo fu pesante. Era la fine di un ciclo».
Per lei sembravano aprirsi le porte di una grande carriera. Invece arrivò un infortunio tremendo.
«Andai alla Spal, in prestito, e mi feci subito male: rottura dell’arco plantare, 18 mesi di stop. Il problema sarebbe stato tornare a camminare, giocare sarebbe stato un di più. Le provai tutte, sino a quando incontrai il dottor Ivo Bertoli che, a San Vito al Tagliamento, mi cambiò la vita. Grazie a lui riuscii a giocare tra C2 e i dilettanti, dove mi tolsi molte soddisfazioni. Ho smesso a 41 anni, al Fauglis, ma avrei continuato, pur essendo contento di tutto ciò ho fatto». —
A.B.
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