Maturità, svegliamoci ora: se gli studenti fanno scena muta, è il sistema scuola che grida

Dietro ai silenzi degli esami di maturità, non c’è disinteresse ma denuncia. Un’intera generazione chiede ascolto, mentre la scuola si trincera dietro riti vuoti. Le lettere dei nostri lettori e la risposta del vicedirettore Mosanghini

Paolo MosanghiniPaolo Mosanghini

Negli ultimi giorni, diversi studenti italiani hanno scelto di non presentarsi all’orale dell’esame di maturità, un gesto clamoroso che ha riacceso il dibattito sul senso stesso della prova finale del ciclo scolastico. Lettere e riflessioni di insegnanti, ex docenti ed esperti del settore mettono in luce una disaffezione profonda verso un sistema percepito come vuoto, distante e disfunzionale.

I silenzi degli studenti sono letti come protesta o provocazione, ma anche come sintomo di un disagio più profondo: una scuola che non ascolta, che non prepara alla vita, e che spesso, invece di essere occasione di crescita, lascia cicatrici. La questione non è solo l’esame in sé, ma il rapporto sempre più fragile tra giovani e istituzioni educative.

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La disaffezione per quell’esame

Negli ordinamenti scolastici degli altri paesi europei, l’esame conclusivo del ciclo di studi superiore ha un ben preciso valore e riconoscimento, specie alla luce dei suoi esiti, per il prosieguo della carriera scolastica o l’inizio di quella lavorativa. Nel nostro Paese lo Stato ha fatto da decenni scelte diverse, non incardinando all’interno del percorso scolastico alcun accertamento e/o valutazione o prove oggettive da utilizzare ai fini dell’ammissione alle Università o a specifici indirizzi di studi, attribuendo quest’ultimo compito alle istituzioni universitarie, pubbliche e private.

Le prove Invalsi hanno finalità diverse. Francamente c’è da restare stupiti che ci si stupisca della disaffezione per un esame alla cui votazione e al cui esito altre istituzioni non attribuiscono alcun valore.

Perché mai gli studenti dovrebbero dare credibilità a un procedimento amministrativo delle cui risultanze lo stato stesso ha deciso da decenni di non dare altro valore che quello di rilascio di un titolo di studio avente valore legale? La decisione del ministro Valditara di rendere obbligatorio il colloquio ai fini del perfezionamento della procedura non va alla radice del problema, ridare credibilità a una prova che l’ha persa non per volontà degli studenti ma per improvvide scelte dell’amministrazione statale.

✍ Giuseppe Barbanti, Venezia


«Differenziare i percorsi»

Con alle spalle 31 anni di insegnamento nei licei cittadini e più di altrettanti come esperta di educazione degli adulti, provo a fare una riflessione sulla scuola che vada al di là del singolo caso.

La scuola italiana, un tempo luogo di emancipazione sociale e crescita culturale, oggi sembra sempre più smarrita tra contraddizioni, rigidità e obiettivi poco aderenti alla realtà dei giovani. Ciò che colpisce è il permanere di un modello educativo novecentesco in un mondo radicalmente cambiato. Da un lato, una competizione esasperata, voti come etichette precoci, programmi identici per studenti molto diversi tra loro. Dall’altro, un’adolescenza sempre più fragile, compressa tra l’iperprotezione di molti genitori e un sistema educativo incapace di riconoscerne la complessità. L’età adolescenziale non è più soltanto un passaggio, è oggi un territorio minato, fatto di solitudini digitali, pressioni sociali, disorientamento.

Eppure gli insegnanti – che restano il pilastro del sistema – vengono selezionati esclusivamente per le competenze disciplinari, senza alcuna reale verifica della loro capacità di comunicare, motivare, comprendere. Nessuno insegna loro a “stare” con gli adolescenti. Nessuno li forma realmente alla relazione, all’empatia, alla flessibilità.

Ci si ostina a inseguire obiettivi standardizzati, come se tutti gli studenti fossero uguali, come se tutti potessero e dovessero apprendere allo stesso modo e negli stessi tempi. È un’illusione dannosa. Eppure, la soluzione esiste: differenziare i percorsi. Non un “tutti promossi”, ma un “ognuno valorizzato”. Un piano di studi personalizzabile, finalizzato non a una sterile certificazione, ma a costruire – progressivamente – un portfolio di competenze utile nella vita e, per chi lo desidera e dimostra le attitudini, nell’accesso a corsi universitari mirati.

Cambiare si può. Basta volerlo. E smettere di inseguire un’idea di scuola come catena di montaggio. La scuola deve tornare ad essere laboratorio di crescita umana, non solo luogo di valutazione.

✍ Pina Raso, Udine


Il chiasso della provocazione

Da ex-docente con almeno una ventina di esami di maturità sulle spalle, compreso il mio da studente, al liceo scientifico Marinelli, mi soffermo sui casi di alcuni studenti in Italia che hanno rifiutato per protesta l’esame orale. I loro punteggi garantivano già il diploma, e si sono permessi di provocare le commissioni con una resa dei conti polemica verso il sistema scuola. Il primo punto è che gli studenti hanno rispettato il criterio dei punteggi introdotto fin dal 1999, ministro Berlinguer, che ha dato inizio alla contabilizzazione dell’esame di Maturità. La contabilizzazione dell’apprendimento si è perfezionata nel tempo fino al 2015 con il registro elettronico, punto di riferimento per tutti gli studenti, poiché le medie matematiche sotto l’occhio delle famiglie e dei ragazzi, non ammettevano aggiustamenti arbitrari da parte dei docenti. Gli studenti hanno semplicemente applicato al punteggio le regole di valutazione oggettive fissate dalla Scuola.

Dopo di che le motivazioni potevano essere di principio o di comodo: o una critica di principio alla contabilizzazione compulsiva dell’apprendimento, di cui le verifiche periodiche in classe sono espressione, con tanto di griglia di valutazione. Oppure una soluzione di comodo per rifiutare un esame orale.

In breve gli studenti si sono serviti degli strumenti di valutazione a punteggio introdotti a Scuola per metterne in evidenza le contraddizioni. E quale occasione migliore per denunciare un percorso educativo sbagliato, se non l’esame di maturità che suggella quel percorso?

Ai ragazzi non è rimasto che il chiasso della provocazione. Se ne sono occupati i media, i presidi, il ministro. Ma, ragazzo, i problemi che hai messo a nudo andranno oltre la tua boutade? Se la tua polemica è la punta di un iceberg, pensi che chi si è mosso oggi per criticarti, vada a esaminare il fondo dell’iceberg, la crisi sommersa della scuola? Una volta esaurito anche questo teatrino estivo, resterà la scuola di sempre, piena di maggiordomi silenziosi al servizio del sovrano di turno, pigri e servili. The show must go on.

✍ Livio Braida, Udine


«Trasgressione inaccettabile»

All’origine del silenzio degli studenti nel colloquio dell’esame di Stato c’è un nodo vitale: si misura la quantità o si ricerca la qualità?

La scelta del modello descrittivo fu compiuta nel 1969, quando l’esame si articolava in due fasi distinte. Nella prima, il Consiglio di classe, ammettendo lo studente all’esame, attestava il possesso d’una preparazione adeguata. Nella seconda, la commissione verificava la maturità personale del candidato, rilevando le qualità critiche, riflessive, relazionali.

L’insieme dei giudizi delle varie prove e dal curriculum era sintetizzato in un giudizio complessivo che, superata la votazione, si traduceva nel voto finale. La maggior parte delle commissioni, però, si è sempre limitata al semplice vaglio delle conoscenze, trascurando l’accertamento della dimensione più profonda della persona.

Nel tempo, il procedimento d’esame è stato scomposto in parti autonome, ciascuna valutata separatamente. La somma aritmetica dei voti ne determina l’esito. Si può ridurre un compito complesso a una somma di prestazioni isolate? Il silenzio degli studenti durante il colloquio d’esame è la risposta: la complessità si affronta raffinando, per approssimazioni successive, non semplificando.

Questo è solo l’aspetto visibile del problema. In profondità resta una trasgressione inaccettabile: le norme sull’autonomia scolastica, che prevedono un’attività collegiale fondata sulla progettazione formativa, educativa e dell’istruzione sono lettera morta e, conseguentemente, è banalizzato il compito educativo della scuola.

✍ Enrico Fortuna Maranzana


La risposta del vicedirettore, Paolo Mosanghini

In queste settimane alcune ragazze e alcuni ragazzi hanno rifiutato di sostenere l’esame orale della maturità, suscitando un dibattito sul mondo dei giovani, sulle problematiche, sulla necessità di ascolto e di attenzione, sull’opportunità della scelta. La scorsa settimana abbiamo pubblicato la testimonianza di una ragazza di un liceo udinese che, rivolgendosi a insegnanti e compagni di classe, sosteneva di non essere stata capita negli ultimi cinque anni. E in un’intervista al nostro giornale, la studentessa (che non ha voluto fosse riportato il suo nome per timore di ritorsioni) ha ribadito : «Sono stata isolata da docenti e compagni. A scuola serve più ascolto e carattere».

Parole che hanno lasciato il segno e che hanno trovato tanta attenzione da parte dei nostri lettori. Molti dei quali hanno pure criticato – sui nostri profili social – la scelta della studentessa. Lei ha preferito sostenere l’esame orale, e ha ottenuto il massimo dei voti. Ma non ha voluto rimanere in silenzio. Ha sofferto in quei cinque anni sui banchi, non sempre è riuscita a socializzare con i coetanei o a entrare in empatia con i prof; si è sentita ingabbiata in una scuola troppo competitiva e poco propensa ad ascoltare e a formare i giovani. Anni che ricorderà non come i più belli e spensierati.

Dicevo che ci sono stati molti commenti, soprattutto da parte degli adulti, alcuni superficiali e banali, con l’obiettivo di sminuire una visione – quella della ragazza – lontana dal mondo dei grandi.

Che male c’è ad aprirsi e a mettersi in gioco denunciando un sistema ritenuto ingiusto? Può essere d’aiuto e incoraggiamento anche ad altri che il coraggio per alzare la testa non ce l’hanno. O no?

I fronti che si aprono sono molti, come pure la domande alle quali rispondere (o tentare di farlo). Il gesto va sicuramente letto come un atto di ribellione al sistema, e conseguentemente va affrontata l’importanza della prova d’esame e il valore che viene assegnato “al pezzo di carta”. Aspetti che si intrecciano inevitabilmente con la sfida generazionale.

Si può essere o meno d’accordo sul merito e sul metodo della protesta di non sostenere l’orale della maturità. Personalmente non sono d’accordo; ritengo che il tentativo di cambiare il sistema debba percorrere altre strade. Il romanticismo e la malinconia che si respirano nel film “L’attimo fuggente” sono distanti dal pragmatismo che richiede anche un percorso scolastico.

Qualcuno allora spieghi ai ragazzi e alle ragazze come farsi sentire in un mondo di adulti.

Le contestazioni a un momento di passaggio così importante nella vita dei ragazzi e la prova dello svuotamento della solennità della valutazione finale del ciclo di studi stridono con le feste e i balli di fine anno in abito da sera. Episodi come quelli accaduti ci spingono a riflettere sul rapporto tra i ragazzi e gli adulti. Se non ci parlano sono assenti e passivi, ma se aprono bocca per criticare li blocchiamo. E allora, che fare?

Gli adolescenti di oggi sono esposti a messaggi e dinamiche sociali estremamente diversi e mutevoli da quelle dei propri genitori e quindi la frase, seppur naturale e scontata «ai miei tempi...» risulta essere paternalistica e insufficiente. Non ci salva; semmai ci mette al riparo dal mondo distante e nuovo dei giovani.

È richiesto uno sforzo per capirli, non per giustificarli perché gli esami nella vita se ne fanno, tanti, e non finiscono mai. Men che meno si può pensare di risolverli facendo scena muta.

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