Vita e scrittura secondo Trevisan: un lungo monologo sull’ossessione

Tre romanzi usciti tra il 1997 e il 2007 dello scrittore scomparso due anni fa. Una prima sistemazione critica a un corpus che si ritiene destinato a durare

Nicolò Menniti-ippolito
Lo scrittore Vitaliano Trevisan in una foto di Luca A. d’Agostino
Lo scrittore Vitaliano Trevisan in una foto di Luca A. d’Agostino

UDINE. Sono passati due anni da quando Vitaliano Trevisan si è tolto la vita. Nel frattempo sono usciti un libro postumo come “Black tulips” e un’edizione lievemente ampliata di “Works” a chiudere il cerchio della sua produzione.

Si tratta ora di ripensare la sua opera, e la sua casa editrice, Einaudi, comincia a farlo pubblicando da oggi, martedì, “Trilogia di Thomas” (408 pagine, 16 euro) che raccoglie i primi tre romanzi dello scrittore vicentino.

Pochi, pochissimi, nessun altro

Come fa intendere la postfazione firmata da Emanuele Trevi, si tratta non solo di mantenere in libreria le opere di Trevisan, ma anche di dare una prima sistemazione critica a un corpus che si ritiene – crediamo giustamente – destinato a durare. E quindi “Trilogia di Thomas” è, fin dal titolo, una possibile chiave di lettura di un autore identificabile come pochi, ossessivo come pochissimi, tormentato come forse nessun altro dei suoi contemporanei.

Ricordiamolo: “Un mondo meraviglioso” , “I quindicimila passi”, “Il ponte” sono usciti come romanzi separati, senza nessun legame apparente, a cinque anni di distanza uno dall’altro, dal 1997 al 2007. Perché allora pubblicarli adesso insieme, sotto uno stesso titolo?

Non solo il nome

Come ricorda Trevi i protagonisti dei tre libri non sono necessariamente la stessa persona, però hanno uno stesso nome, Thomas, che si configura come una sorta di alter ego dello stesso Trevisan, senza però identificarsi del tutto con lui. Thomas come Thomas Bernhard, non si può non notare, ovvero come lo scrittore che, insieme forse a Pasolini, ha maggiormente influenzato la scrittura di Trevisan e che viene apertamente evocato in “Il ponte” .

Ma non si tratta del solo nome. Tutti e tre i romanzi sono introdotti nelle prime righe da un inciso – scrive Thomas – che ritorna poi di tanto in tanto nel testo e soprattutto chiude specularmente le ultime righe di ognuno dei tre libri. Insomma c’è una evidente analogia strutturale oltre che di temi e stile, che giustifica il parlare di trilogia, rafforzata anche dal fatto che ognuno di questi testi ha un sottotitolo (rispettivamente “Uno standard” , “Un resoconto” , “Un crollo” ) che sia pure in modo criptico chiarisce la natura dello stesso testo.

Forma del vivere e dell’infelicità

Leggerli di fila è dunque immergersi in un lungo monologo, che non rimanda però alla oralità, ma apertamente alla scrittura, perché Thomas non “dice” , non “pensa” , ma sempre e soltanto scrive. E questa è la prima grande ossessione di Trevisan. Per lui la scrittura è necessità, è forma del vivere e forma dell’infelicità.

Le citazioni potrebbero essere moltissime e col senno di poi sembrano anticipare la sua scelta finale: “Nessuno e in grado di capire che scrivere o non scrivere è una questione che implica per me anche il dilemma vivere o non vivere” , e poi “E anche se a volte ho l’impressione che lo scrivere possa contenere il non vivere, non mi passa neppure per la testa l’idea che il vivere contenga il non scrivere” , ma anche “Non scriverò più, pensai, perché sono un uomo felice e gli uomini felici non hanno motivo di scrivere” .

Scrivere ha a che fare con l’infelicità, dunque, e l’infelicità è la condizione che accomuna i tre Thomas di questi libri, anche se si colora di volta in volta di ironia, di sarcasmo, di rabbia non trattenuta, di analisi sociologica, di dichiarato discredito gettato su tutto e tutti (sé stesso compreso), ma in primo luogo su Vicenza, sul Veneto, sul Nordest che diventano oggetto di costante invettiva esattamente come l’altro Thomas, Bernhard, faceva con la sua Salisburgo.

Coltivare il pessimismo

Come sottolinea Trevi nella sua postfazione Vitaliano Trevisan è in questi testi contemporaneamente imitatore di Bernhard (anche nel ritmo della frase, nel continuo tornare degli stessi termini, nel martellare della analisi) e scrittore originalissimo, perché capace di mettere la sua vita, la sua visione del mondo, le sue ossessioni dentro una struttura ereditata da altri.

Così il pessimismo di Trevisan è potente quanto quello di Bernhard, ma di genere sostanzialmente diverso, radicato in un contesto che aldilà delle analogie esteriori (il familismo, il cattolicesimo, l’ipocrisia) ha poco a che spartire con la bassa Austria.

Corpo a corpo

Trevisan non racconta eventi, è sempre difficile riassumere i suoi libri. Racconta (perché la dimensione del racconto è totale) pensieri che si succedono mentre alcune cose accadono: mentre va a visitare il padre in Ospedale come nelle pagine iniziali di “Un mondo meraviglioso” o mentre va dal notaio Strazzabosco in “I quindicimila passi” .

La precisione fino al dettaglio delle descrizioni del dato esteriore (il numero dei passi, le strade, gli edifici, ma anche i marchi dei vestiti, delle scarpe, delle cose) è speculare al tentativo di portare alla luce la verità oggettiva del dato interiore, con uno scavo fenomenologico – viene da dire – che è doloroso, continuo, ricorsivo fino a diventare allucinato e allucinante.

La trilogia è perciò un’immersione profonda nel mondo di Trevisan, inevitabilmente disturbante, a tratti per qualcuno anche irritante, perché la sua lettura richiede una sorta di corpo a corpo continuo, non dissimile da quello che Vitaliano esercitava scrivendo.

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