Il ritorno di Velma: il film friulano di Piero Tomaselli conquista YouTube

Dopo un mese di sospensione, il film del 2009 accumula oltre 255mila visualizzazioni: il regista racconta la genesi, i festival internazionali e i progetti futuri

Gian Paolo Polesini
Il regsita friulano Piero Tomaselli (a sinistra) sul set assieme a Gianmarco Tognazzi.
Il regsita friulano Piero Tomaselli (a sinistra) sul set assieme a Gianmarco Tognazzi.

Un titolo appropriato sarebbe “Lo strano caso del film Velma”, un mese di sosta su YouTube e il numerino di visualizzazioni è salito di botto a 255.115. L’opera del friulano Piero Tomaselli, pensate, è del 2009. Praticamente nel Cetaceo per il mondo del cinema dove tutto si consuma in fretta e altrettanto velocemente sparisce. Velma è una porzione di fondale d’una laguna che rimane sommerso in concomitanza con l’alta marea. Ma è anche il nome della giovane protagonista, una ragazzina/sirena trovata da un burbero pescatore («che ricorda i personaggi di Conrad», scrisse al tempo il critico Carlo Gaberscek) intrappolata in una rete. Il fondale è quello della Laguna di Marano, appunto. S’era capito sin qui che il luogo profuma di salsedine. Uno sfondo nostrano con attori nostrani — Giorgio Monte, Manuel Buttus, Camilla Zanoner e con un Gianmarco Tognazzi a dar manforte — a una storia universale.

Tomaselli, riavvolgiamo la vita di una ventina d’anni. Le va?

«Fu un’avventura spinta dalla fascinazione del posto e da una vicenda che ancor oggi, anzi più di allora, mette in circolo i pensieri. I racconti fra i casoni riempivano i taccuini di uno come me che voleva trasformare le intriganti esistenze altrui in cinematografo. Ricordo che mi informarono di un tedesco che abitava con una tartaruga gigante, tanto per dirne una di stranezza. Cominciai così a mulinare una sceneggiatura assieme agli amici. Di soldi non ce n’erano molti, però la Regione Fvg ci aiutò. E pure la Film Commission. L’idioma è il dialetto maranese, giusto per precisare».

Lei è tornato a Udine dopo i due decenni romani?

«È così. Mi laureai a Padova proseguendo gli studi a Cinecittà, dove peraltro rimasi a insegnare. La scuola fallì e ora mi occupo di letteratura all’udinese Uccellis senza perdere di vista il cinematografo».

Curioso davvero assistere alla rinascita di un film che ormai pareva destinato all’oblio.

«In realtà il grande schermo si dimentica di ciò che ha aiutato a diffondere. Dal lancio alla parabola discendente passano dei mesi, a meno che non sia un capolavoro assoluto. Allora “Velma” visitò moltissimi festival in tutto il mondo, dall’India agli States e vinse pure un sacco di premi — ricordo una proiezione a Mariupol in Ucraina e un’altra in Sudafrica — ma non ebbe l’onore di riunire gli spettatori in una sala italiana. Accaddero varie disavventure — del tipo i fallimenti della Technicolor e dell’Act Multimedia — che contribuirono a tenere lontano il nostro progetto dalla distribuzione».

Una gran bella rivincita, direi. Numeri pazzeschi messi assieme in una trentina di giorni, nemmeno le celebrità vantano successi così sostanziosi. Ha un’idea del perché?

«Si parla poco e le immagini si prendono il palcoscenico. Non dovrei fare spoiler, ma vabbè, ‘sta cosa va detta: il tema dell’eutanasia vien fuori. Un gesto naturale quello del film. Gli algoritmi, si sa, scelgono se diffondere o meno un gesto, uno scritto, una pellicola. Credo che gli americani più di altri ne abbiamo apprezzato il senso. Ma sono ipotesi. I dati per fortuna hanno dimostrato il piacere del pubblico».

Aiuto regista era Filippo Meneghetti. Dieci anni dopo un suo film — "Deux" (Due) — con targa France fu candidato agli Oscar come miglior film straniero.

«Lui raccontò la vicenda di due lesbiche settantenni. Pensi che la commissione francese lo scelse preferendolo addirittura a un Godard. Inutile dirlo che la nomina mi rese davvero felice».

Ha in mente qualcosa, Tomaselli?

«Non mollo ovviamente. Attualmente lavoro a una sceneggiatura da “Le dodici civette” di Juliette Evola. Tempo fa scrissi con Damiano Cantone un saggio sulla suspense cinematografica. Insomma, mi tengo allenato».

Ultimo ricordo: un documentario che ricevette un premio al festival udinese dei Confracorti. Lei stava sulla rampa di lancio.

«Credo fosse il 2005. Con la partecipazione di Lizzani, Montaldo, Ovadia, Ghezzi e di altri grandi personaggi. “Simone Lecca e il cinema (dell’) invisibile” s’intitolava. Si stava meglio allora, non c’è dubbio». 

Riproduzione riservata © Messaggero Veneto