Unabomber resta senza volto: «Potrebbe essere all’estero»

PORDENONE. «Il vero Unabomber potrebbe essere cercato all’estero». L’avvocato Maurizio Paniz, difensore di Elvo Zornitta per anni sospettato di essere Unabomber, aveva parlato all’indomani della condanna in Cassazione, novembre 2014, dell’agente che incastrò l’ingegnere di Azzano Decimo con una prova rivelatasi manipolata.
Un giallo tuttora aperto, irrisolto. Un giallo cominciato il 21 agosto 1994, alla Sagra dei osei di Sacile. Su Unabomber hanno indagato quattro Procure, decine di investigatori, una ventina di magistrati.
Da quell’agosto, gli attentati sono proseguiti per un paio d’anni con la stessa tecnica (un tubo metallico esplosivo), poi hanno subito uno stop di circa quattro anni, dal 1996 al 2000, quando il bombarolo è passato a una confezione di uova, prima, un tubetto di pomodoro, poi, e a uno di maionese acquistati in un supermercato di Portogruaro, fino a un cero votivo nel cimitero di Motta di Livenza.
A Natale 2003 un ordigno è scoppiato nel duomo di Cordenons. È a questo punto che viene costituito un nucleo specializzato di investigatori, il pool interforze, che comincia a controllare centinaia di persone, cui segue un’intesa tra le Procure generali di Venezia e Trieste, che riuniscono i vari fascicoli d’indagine sparsi nel Nordest sotto l’ipotesi dell'aggravante terroristica, e le mettono in capo alle Procure distrettuali delle stesse città.
Da allora si susseguono altri episodi, tra cui lo scoppio in uno sciacquone di un bagno del palazzo di giustizia di Pordenone, l’esplosione di un evidenziatore giallo nelle mani di una bimba di 9 anni sul greto del Piave e un accendino inesploso, avvolto in nastro adesivo nero, il 2 aprile 2004 dentro un inginocchiatoio nella chiesa di Sant’Agnese, a Portogruaro.
Unabomber, quello vero, è a piede libero. «Salvo – ancora Paniz – che non sia morto o sia tornato in qualche paese del mondo». A suo tempo, in sede istruttoria, aveva espresso il convincimento che Unabomber potesse essere di origine sassone, americana o similare. Alcuni elementi tecnici spingevano in quella direzione: la misurazione in pollici e non in decimali del nastro di ottone dal quale fu tratto il lamierino esaminato e i componenti di alcuni prodotti utilizzati, tipici di quel mercato.
«Quello di Unabomber – spiegava il legale – è un concetto elaborato e più diffuso nella comunità americana. Ma non ho elementi di certezza; era un tema di indagine eventualmente da sviluppare, senza nulla voler obiettare rispetto al lavoro che gli inquirenti hanno fatto sicuramente con il massimo impegno: una mela marcia non deve rovinare la stima nei confronti del lavoro di tutti gli altri inquirenti».
Unabomber colpì il 21 agosto 1994, secondo i documenti processuali. Ma, per qualcuno, la sua prima apparizione risalirebbe addirittura a sei anni prima.
E’ il momento della ricreazione. La giornata, una delle ultime dell’anno scolastico. I bambini che frequentano la scuola elementare di via Udine, sono in cortile. Gli occhi di uno di questi scorgono per terra un oggetto di plastica di colore giallo. Lo raccoglie e, dopo averlo rivoltato qualche istante tra le mani, lo sbatte contro il muro di cinta: l’oggetto esplode. Il caso venne archiviato sei mesi dopo, la famiglia della vittima, ferita al volto e alle mani, però, aveva intrapreso la sua battaglia legale per «atto terroristico».
L’ingegnere di Azzano Decimo viene indagato nel 2004 per le ipotesi di reato di lesioni personali continuate aggravate dalla finalità di terrorismo, fabbricazione, detenzione e porto di ordigni per finalità di terrorismo. Per lui comincia un calvario, anche mediatico, sino all’assoluzione.
Le carte dell’accusa. Tre perizie dimostrano identità fra le microstrie rilevate su un paio di forbici sequestrate a casa e quelle trovate sul lamierino di uno degli ordigni attribuiti a Unabomber. Anche qualora si dimostrasse che le forbici sequestrate a Zornitta sono quelle che hanno tagliato il lamierino, ribatte la difesa, restano da dimostrare due cose: che erano nella disponibilità dell’ingegnere quando sono state usate per tagliare il lamierino e che sia stato proprio lui a fare quel taglio.
Il lamierino trovato in un ordigno inesploso nella chiesa di Sant’Agnese, a Portogruaro, si trasformano in un boomerang per il castello accusatorio. Quel lamierino, sostiene la difesa, «è stato manomesso».
A fine gennaio 2008, una riunione alla Procura di Venezia sancisce la fine del pool d’investigatori. «Il lavoro è concluso, non ci sono piste da seguire», ammettono gli inquirenti, guardando decine di faldoni, diecimila pagine di relazioni. Il primo marzo 2009 il gip di Trieste firma il decreto di archiviazione. Elvo Zornitta non è più indagato. L’ingegnere tira un sospiro di sollievo: «E’ finita per davvero».
Le motivazioni: «L’abbondante materiale sequestrato allo Zornitta e le sue dichiarazioni agli inquirenti, hanno senz’altro giustificato tutta l’attenzione investigativa che vi è stata nei suoi confronti». Ma... «il dna estratto dalla saliva rinvenuta sul nastro adesivo utilizzato per l’attentato del 13 ottobre 2000 ad Azzano Decimo, non corrisponde a quello dell’ingegnere. Che è stato sottoposto a intercettazioni telefoniche, ambientali e a controlli tramite gps sui suoi spostamenti in auto. Questa attività non ha dato risultati utili per l’accusa». Un altro elemento favorevole è direttamente collegato all’attentato del 26 gennaio 2005 compiuto a Treviso.
«L’ordigno venne posizionato sulla colonnina dei telefoni, nella stessa mattinata, ma l’autore di tale collocazione non fu Zornitta, impegnato in quelle ore sul lavoro, oppure, insieme alla moglie, nel disbrigo di faccende familiari». Reperti sequestrati: «A considerarli tutti nel loro complesso e non singolarmente, il quadro è suggestivo. Guardandoli però con attenzione, questi elementi non rappresentano una prova di nulla».
Parallelamente, parte il processo all’agente di polizia accusato di avere manomesso una prova regina, il lamierino. A novembre 2014, l’ultimo verdetto. La prima sezione penale della Cassazione ha confermato la condanna a due anni di reclusione, pena sospesa, per il poliziotto esperto in balistica. Con questa decisione la Suprema Corte ha confermato il verdetto emesso nel processo d’appello bis, disposto in passato dalla stessa Cassazione, dalla Corte di appello di Venezia il 4 giugno 2013. Il caso è chiuso. «Unabomber potrebbe essere andato all’estero. O essere morto».
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