Un viaggio tra i borghi abbandonati mentre le città si svuotano di vita

Si potrebbe raccontare la storia dell’umanità come storia dei flussi: migrazioni, insediamenti, abbandoni, ritorni, da un polo all’altro, da sud a nord, dalla campagna alla città, dal centro alla periferia, in un procedere ritmico a volte contraddittorio che tende a riempire il vuoto o il già pieno, e a svuotare l’affollato o il già deserto. In questo anomalo inizio 2020, sotto i colpi dell’epidemia, anche la storia dei flussi ha registrato stranezze, controcorrenti e movimenti all’impazzata.
Abbiamo assistito alle fughe verso sud, alle chiusure dei confini, al cortocircuito della globalizzazione; abbiamo visto città svuotarsi, “fingere” di essere abbandonate mentre erano stipate, nelle loro case, di umanità in quarantena. Ci siamo stupiti per la crescita esponenziale dei praticanti di sport all’aperto o di animali selvatici a spasso per marciapiedi e piazzette eleganti. Parimenti imprevedibile, pur nel doveroso rispetto delle ordinanze, sarà, a quanto pare, il movimento che ci attende.
C’è chi sostiene che prevarrà il desiderio di riappropriarsi della città e della mondanità, e chi invece prevede una fuga verso la tranquillità, una scelta che conduca a luoghi appartati, garanzia di serenità, sicurezza, bellezza. Potremmo allora ripartire dal libro La teoria dei paesi vuoti di Mauro Daltin (Ediciclo), ricominciare dai borghi fantasmi per un’esperienza-riflessione «utile a tempi presenti così sfilacciati», come fa l’autore, cullato nel grembo materno dai moti della terra del 1976, attratto per inquietudine dal vuoto e dall’essenza, affamato di libertà e stupore, alla ricerca delle proprie radici.
E, si sa, le radici stanno in basso, come in basso precipita il vuoto. E allora il viaggio tra borghi abbandonati, nella realtà e nella scrittura, non può che calarsi dantescamente in gironi, cinque nell’ordine della discesa: dei fragili, dei folli, degli annegati, degli esclusi, degli inquieti, a indicare la causa del loro male, l’inizio della loro fine, ma anche il nome della nostra umanissima precarietà, estraneità.
Umana è, non a caso, la percezione che l’autore ha dei paesi vuoti come corpi che nascono, vivono, muoiono, soffrono, piangono, sperano, tremano; arsi dalla guerra, privati di teste-tetti, inutilmente rianimati, eppure intrisi di storie.
Duplice è il viaggio intrapreso da Daltin nella sua erranza, geografica e interiore; molteplice è il viaggio percorribile dai lettori che seguono il narratore in un andare fuori e dentro la storia e fuori e dentro di sé. Impariamo a distinguere i tipi di silenzio: quello del bosco che cela la vita invisibile dei predatori, il silenzio di neve che è ovattato, quello ruvido della montagna, il silenzio dell’abbandono rintracciabile in un oggetto in bilico su un tavolo salutato in fretta, il silenzio di una tragedia appena compiuta da un terremoto o un’alluvione.
Il tempo si dilata, rallenta, tende all’eternità, mentre entriamo in alcuni dei paesi vuoti del mondo e dei seimila d’Italia, imbattendoci in persone o fantasmi che li custodiscono.
Abbandonati all’improvviso per una violenta calamità o tragedia provocata, svuotati da una lenta agonia o dalla rottura del patto generazionale di continuità, esclusi dal progresso o per «lo spostarsi dell’asse della storia». Restano muri, oggetti, chiese, stanze, perimetri, come gusci del Novecento che andandosene «si è portato via tutto, le utopie e la sofferenza, le battaglie e le ferite, la gioia e le scoperte».
La terra rimasta si riaffida alla natura che «ritorna ad abitare un’assenza»: alberi, rovi crescono fin dentro le case, tartarughe riprendono a nidificare sulle spiagge, famiglie di cinghiali diventano cittadine.
Con Daltin entriamo a Portis, ferita a morte da terremoto e frana, a Moggessa, luogo-anima del libro “Mestri di Mont” di Tito Maniacco, a Craco, il più famoso paese fantasma d’Italia, a Centralia, la città che continua a bruciare, a Palcoda di Tramonti di Sotto, vittima dell’abbandono e poi del fuoco nazifascista, a Curon Vecchia in Trentino con il campanile che raramente riemerge, una delle atlantidi sommerse, in apnea per un’alluvione o una diga fuori controllo, a Gena che vive sotto il lago nelle Dolomiti bellunesi.
Sono alcuni dei borghi in cui l’autore ci invita a entrare con lo «stupore dei bambini» e «inquietudine feroce» per accettare il vuoto, spesso così simile alla paura, fino a scoprire in esso un porto sicuro che tramanda parole come fatica, comunità, dignità, fede; un luogo per «l’errare del nostro spirito», per liberarne l’irrazionalità.
Profetiche e attuali le conclusioni. Con lucida profondità l’autore auspica che si guardi alle «geografie dell’abbandono» e al «margine come a un territorio di ricerca» per un nuovo modo di «pensare il paesaggio» ristabilendo il patto tra montagna e pianura, poiché dalla salute dell’una dipende la salute dell’altra, e il patto tra le radici e la nuova vita, per una topografia paesaggistica e insieme interiore, una nuova «grammatica del luogo» che renda importante anche la pronuncia del nome, nella cui sonorità il paese continui a vivere.
E intanto, entrando in uno dei borghi abbandonati, attratti dalla bellezza selvaggia e dal mistero, inquieti come l’ultimo dei gironi del libro, corriamo il rischio di non uscirne più, forse per quell’ancestrale, naturale, istintivo impulso a colmare e riempire di sé il vuoto.
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