Un giornale libero e il Friuli trovò la forza di ripartire

UDINE. Il giornale come l’uomo, piú gli anni passano, piú fa sentire la sua presenza. Ci siamo. Dove eravamo rimasti? Eravamo rimasti storditi e increduli in quest’angolo italiano senza confini certi dal mare triestino in su, su lungo il Carso, i colli isontini, i monti friulani.
Vincitori e vinti, tutti segnati da un incancellabile dolore: le piaghe di una guerra conclusasi con un’altra guerra, e per di piú fratricida, erano tutt’altro che guarite, nonostante si cominciasse a cogliere i primi refoli di libertà. Gli ultimi mesi del conflitto avevano esasperato gli animi e il Friuli Venezia Giulia era la regione in cui le tensioni erano tutt’altro che sopite.
Il 1945 fu un anno molto duro, perché le sofferenze non erano finite e le conseguenze si potevano immaginare concedendosi soltanto qualche filo di speranza. Però eravamo in Italia, ce ne rendevamo conto, anche se si coglieva nell’aria un fremito ininterrotto di provvisorietà e di incertezza.
Come il recente passato era entrato con le sue atrocità nella memoria collettiva, cosí il futuro ne subiva le conseguenze, suscitando in ognuno piú timori che entusiasmi, sentimenti che alimentavano i bruciori delle ferite e perpetuavano le profonde incomprensioni che già avevano macchiato la grande sete di libertà comune alla maggior parte degli italiani.
I friulani avrebbero comunque dovuto fare fronte alle operazioni militari e alle conseguenti situazioni economiche disastrate: la presenza tedesca, con l’appendice dei cosacchi in Carnia, aveva reso l’estremo territorio orientale un’area particolarmente importante per gli esiti del conflitto, le cui azioni comportavano bombardamenti, scontri, agguati, saccheggi, requisizioni, vandalismi, distruzioni: la miseria era condizione di quasi tutte le famiglie.
Con questo fardello sulle spalle i friulani stavano muovendo i primi passi in un mondo nuovo. Il primo maggio 1945 sul colle del castello udinese sventolava il tricolore e quel simbolo segnava una svolta storica che per dirsi definitiva avrebbe dovuto attendere altri decenni.
Quale destino si sarebbe avverato oltre la soglia appena aperta sul futuro? Era proprio il domani la grande incognita dei friulani e dei triestini.
La Resistenza era conclusa, l’Italia era ritornata agli italiani: l’eccezione ci toccava direttamente, configurata da confini approssimativi, discutibili e per lungo tempo vanamente discussi in più circostanze, compresa quella della barbarie consumata soltanto due mesi prima della liberazione tra i boschi di Porzûs, dove si consumò una tragedia che rappresentò il culmine di un dissidio ideologico che si sarebbe dispiegato sul mondo intero, dividendone le sfere di influenza tra est e ovest, fino a quando, trascorso quasi mezzo secolo, fu demolito il muro che lo materializzava.
Il lungo tempo di contrasti tra le potenze vincitrici della seconda guerra mondiale trova idealmente inizio fra i boschi tagliati a mezza altura da una strada bianca e stretta, che congiunge Attimis a Canebola sfiorando nei pressi della borgata di Porzûs due rustici saltuariamente utilizzati dai coltivatori nelle stagioni appropriate.
In quella zona correva la linea di confine tra l’Italia e la Jugoslavia, alleate nell’obiettivo di respingere le forze nazifasciste che occupavano il territorio friulano, ma quanto vi accadde il 7 febbraio 1945 segnò l’apice di una contrapposizione politica che si sarebbe protratta a lungo per i fermenti ideologici proditoriamente espressi: un gruppo di azione partigiana capeggiato da Mario Toffanin (Giacca) e formato da Garibaldini nel pomeriggio assalì di sorpresa gli Osovani del Comando affidato a Francesco De Gregori (Bolla) e in un paio di giorni uccise i 19 fatti prigionieri.
Partigiani comunisti avevano massacrato partigiani di estrazione democratica, scrivendo col sangue “fraterno” la pagina più tragica della Resistenza italiana.
Non si trattò di un’azione imprevista, frutto di una singola malaugurata decisione, ma l’epilogo di un conflitto ideologico: i comunisti condividevano l’obiettivo di Tito per l’annessione alla Jugoslavia di Trieste, dell’Istria e di larga parte del Friuli; gli Osovani si opponevano e rivendicavano l’italianità di quelle terre.
Questo dissidio di fondo era tangibile fin dalla costituzione delle due formazioni e anche nelle quotidiane azioni contro gli invasori la Garibaldi e la Osoppo si differenziavano: i comunisti erano piú determinati e la popolazione non sempre apprezzava il loro comportamento che talvolta suscitava le feroci rappresaglie dei nemici; i “fazzoletti verdi” non agivano senza tenere in considerazione le conseguenze che gli scontri avrebbero provocato tra la inerme popolazione.
All’atteso appuntamento con l’insurrezione ormai vicina il Friuli Venezia Giulia e l’Istria si presentavano con una popolazione che nutriva piú speranze che certezze, soprattutto per la mancata unità delle forze che dopo l’8 settembre 1943 avevano combattuto sull’estremo lembo orientale dell’Italia.
La liberazione finale era a portata di mano, ma una profonda inquietudine turbava ancora gli animi: cosa sarebbe accaduto quando anche l’ultimo tedesco se ne sarebbe andato? Quale peso avrebbe avuto nella definizione dei nuovi confini la presenza degli italiani nella Resistenza?
Da un lato, non era un mistero che gli Alleati anglo-americani non avevano gradito la presenza partigiana al loro fianco dopo lo sbarco in Sicilia, per cui non c’era alcuna certezza sulla linea che avrebbero tenuto per il futuro della regione; dall’altro, le idee erano chiare e largamente pubblicizzate, dal momento che Tito rivendicava il diritto di estendere il confine della sua federazione fino al Tagliamento e poteva contare sui comunisti italiani che già avevano combattuto alle sue dipendenze aderendo al IX Corpus.
Tra la fine di aprile e le prime settimane di maggio 1945 si verificarono gli ultimi sanguinosi botti di un conflitto destinato a sconvolgere larga parte del mondo. L’annuncio dell’insurrezione fu dato a Milano, dov’era riunito il Comitato di liberazione nazionale che avrebbe ordinato la cattura dei fascisti in fuga attraverso il Comasco verso la Svizzera; in Friuli i tedeschi erano ancora presenti e i cosacchi mantenevano l’occupazione della Carnia.
Sull’onda degli avvenimenti nell’Italia settentrionale, si costituí a Udine il 27 aprile il Comando unificato delle forze partigiane che diede vita a nuclei distribuiti in vari paesi per intercettare e controllare il traffico: erano già in atto le manovre che vedevano i Titini da una parte e gli Angloamericani dall’altra impegnati ad annettersi il capoluogo ancora in mano fascista.
Furono giorni in cui spesso la barbarie travolgeva ogni sentimento umanitario e la gente era esasperata nell’attesa di conoscere il proprio destino. Lunedì 30 aprile il Comando unico impartí l’ordine di insurrezione e nella notte gli ultimi tedeschi lasciarono Udine.
Era arrivata la notizia che Mussolini era stato fucilato a Dongo e impiccato a Milano. La “questione di Trieste” divampò scatenando le prevedibili tensioni fra tutte le Forze che, per ragioni diverse, ormai agivano senza riserve: era in ballo il destino della Adriatisches Kustenland (province di Trieste, Udine, Gorizia, Pola, Fiume e Lubiana) istituita e comandata militarmente dai tedeschi dopo l’armistizio dell’8 settembre.
Negli ultimi giorni di aprile le truppe neozelandesi, con il sostegno dei partigiani della Osoppo, si mossero dal Veneto dirette a Trieste nella speranza di giungervi prima dei rappresentanti slavi. Non fecero in tempo: il primo maggio, con l’allontanamento degli ultimi tedeschi, la città e i territori limitrofi furono annessi come “settima repubblica” alla nascente Federazione jugoslava, mentre Tito, con la collaborazione dei partigiani comunisti italiani, assumeva il controllo di tutta la Venezia Giulia.
Sarebbe stata un’illusione pensare che gli angloamericani, dopo avere svolto il ruolo principale nella liberazione dall’occupante tedesco, abbandonassero a un ignoto destino questo importante angolo d’Italia: l’ex Adriatisches Kustenland divenne subito un nodo politico da sciogliere al più presto, soprattutto per i suoi risvolti ideologici .
Il 9 giugno 1945 a Belgrado si trovò un accordo, che però fu di breve durata: nacque la Linea Morgan, che prevedeva una nuova demarcazione lungo il corso dell’Isonzo; tre giorni dopo, il 12 giugno, su indicazione del primo ministro inglese Winston Churchill, il generale Alexander ottenne il ritiro dell’Armata popolare di liberazione della Jugoslavia e il passaggio di Trieste, Gorizia, Pola, Rovigno e Parenzo a un Governo militare alleato.
Trieste e l’Istria furono quindi suddivise in due zone (A e B), amministrate militarmente dagli Alleati e dagli jugoslavi; la prima comprendeva il litorale Giuliano da Monfalcone a Muggia, piú l’enclave di Pola; la seconda presiedeva il resto dell’Istria.
Umori e malumori si mescolavano in quell’area che aveva assunto un’importanza ben al di là delle linee confinarie: il bacino che accoglieva le ultime acque dell’Adriatico e le colline lungo le quali si prolungava l’etnia friulana costituivano in realtà un crinale dal futuro politico (e quindi economico e sociale) molto incerto, legato all’evoluzione che si sarebbe verificata con l’accordo definitivo tra la Jugoslavia e le Forze Alleate: in concreto, tra la Russia e l’America.
E l’Italia? Che ruolo aveva l’Italia nella partita che, dopotutto, si giocava sul suo campo? A livello istituzionale aveva poco da dire: il Regno di Vittorio Emanuele e il Governo di Badoglio non avevano l’autorevolezza necessaria per mettere lingua in questioni di quella portata.
I fermenti erano piú percepibili nel Friuli Venezia Giulia, dove la popolazione non accettava l’idea che fossero gli stranieri a decidere il suo futuro; l’orientamento della stragrande maggioranza era comunque favorevole agli Alleati.
Nel periodo dall’8 settembre alla istituzione delle zone A e B gli abitanti non disponevano di una stampa esaustiva e men che meno espressione di un notiziario politico non allineato alle direttive del nazifascismo.
L’unico quotidiano nella provincia di Udine era Il Popolo del Friuli, diretto da Federico Valentinis, un uomo che non si era mai discostato dal regime; si pubblicavano poi La vita cattolica, settimanale chiaramente clericale; infine, si stampavano due quindicinali: La voce di furlania e Difesa territoriale, periodici dai contenuti evasivi di scarso effetto politico; per favorire la “fraternizzazione” si distribuivano quattro periodici in lingua tedesca (uno dedicato espressamente ai cosacchi in Carnia ) con notizie di spettacoli e cultura.
Trascorsi fra alterne vicende i mesi del 1945, la nuova realtà consentiva di prendere atto che la diplomazia era riuscita a smussare provvisoriamente le asperità ormai palesi tra i vincitori, i quali comunque non mostravano alcuna intenzione di togliere le mani dal sacco.
Piú passava il tempo, piú nella popolazione si risvegliava il sentimento patriottico dipanatosi in rivoli diversi, disperdendo i valori che lo alimentavano. Italia, Italia. Centinaia di migliaia di morti. Non c’era voce per quel sofferto silenzio che tuttavia andava contagiando nella regione quanti avevano coltivato un sogno di libertà.
Era arrivato il momento di alzare idealmente un nuovo tricolore. Sessantanove anni fa cominciò a nascere questo giornale.
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